16 canzoni, la voce accompagnata dalla chitarra acustica o dal pianoforte, e per ogni canzone un’introduzione, tratta dalla sua recente autobiografia. Un racconto che parte dalle radici, dall’infanzia nel New Jersey, e che a quelle radici infine ritorna, perché solo a quelle ti puoi attaccare quando nella tua vita arriva la tempesta. Perché una tempesta prima o poi arriva.
E’ uno Springsteen insieme malinconico e spiritoso quello che si racconta, si confessa davanti al suo pubblico in questo show che ha appena chiuso i battenti a New York dopo quasi 250 repliche. Non un concerto, ma uno spettacolo teatrale portato in scena sera dopo sera, in cui si intuisce la necessità stringente dell’artista alle soglie dei 70 anni di fare un bilancio della sua carriera e della sua vita.
Nel documentario uscito su Netflix il pubblico quasi non si vede, se ne sentono solo gli applausi. Bruce è solo sotto i riflettori, vestito di nero e con le scarpe da lavoro. Le inquadrature strette rivelano ogni momento di commozione, con qualche lacrima che è costretto ad asciugarsi e uno sbattere d’occhi nervoso, sui passaggi per lui più impegnativi. Sono quelli che riguardano suo padre, quell’irlandese triste con la faccia rubizza per le troppe birre, quell’uomo che non lo ha mai capito nè tantomeno appoggiato, ma che sul punto di diventare nonno ha riconquistato la dolcezza di un rapporto mai curato. Springsteen passa con facilità dal registro drammatico a quello comico, come quando rivela di non avere mai messo piede in una fabbrica, nonostante abbia cantato tante storie di lavoratori, o di abitare a 10 minuti dal suo paesino natale, proprio lui, “mister born to run”.
Le canzoni scorrono una dopo l’ altra in una sequenza studiata alla perfezione, non è una sfilza di grandi successi e la sua canzone più nota al grande pubblico “Born in the Usa” è cantata quasi senza musica, ridotta all’osso, lontanissima da quella del disco così spesso equivocata e scambiata per un inno degli Stati Uniti degli anni di Reagan. Per introdurla Bruce racconta di quando fu scartato alla visita per partire in Vietnam. Di come invece partirono due suoi amici, due giovani rocker di belle speranze, e di quando andò a Washington a cercare i loro nomi sul memoriale dei caduti per quella causa persa. “E ancora mi chiedo chi è partito al posto mi – dice Bruce con il volto impietrito – Perchè qualcuno è andato al posto mio”.
Ricordi, ricordi e sogni che si intrecciano, con un omaggio ai suoi compagni di sempre della E Street Band e uno struggente “arrivederci nella prossima” vita indirizzato a Clarence Clemons, morto diversi anni fa. Sul palco arriva Patty Scialfa, per due duetti tratti da Tunnel of Love, Springsteen presenta sua moglie come “la regina del suo cuore”, colei che gli sta accanto da tanti anni pur avendo visto dietro le sue numerose maschere.
La moglie, la famiglia, quella straordinaria mamma Adele che nonostante l’Alzheimer ama ancora ballare, il grande albero vicino a casa sua, la Chiesa. “I cattolici una volta che ti acchiappano non ti mollano più”, scherza Bruce. Poi fa silenzio e recita il Padre Nostro.
Amore e dolore, ricordi malinconici e speranze per il futuro, “che non è ancora scritto”, ci ricorda Bruce con uno sforzo di ottimismo. Non manca un passaggio sull’America di Trump, come introduzione al suo capolavoro dedicato ai migranti, The Ghost of Tom Joad. “Pensavo che ci fossimo lasciati alle spalle certe cose, e invece dobbiamo ancora combattere per l’America che vogliamo“.
Due ore e 20 di musica e parole. Un disco difficile da ascoltare facendo altro, un racconto che va seguito passo passo, e che richiede una discreta conoscenza dell’inglese, oltre che naturalmente un grande amore per questo artista. Ma è Bruce come non lo avete mai visto e sentito. Bruce che vi invita nel salotto di casa sua perché ha bisogno di raccontarvi tutto. Tutto quanto cominciò quella volta che vide Elvis in tv. “Il genio del rock and roll era uscito dalla lampada- , dice Bruce- e io sentii l’odore del sangue…..”