Né la guerra, né l’inflazione e neppure il rallentamento dell’economia hanno fermato l’aumento del salario minimo in Spagna. Un impegno preso nel 2018 da Pedro Sanchez e mantenuto durante tutta la legislatura, cercando di tenere insieme sindacati e confindustria.
A differenza di altri paesi europei, dove il salario minimo è deciso per settori, in Spagna è interprofesisonale, dai metalmeccanici ai servizi.
Tra i vantaggi di questo sistema c’è il fatto che i benefici si estendono su una fetta più grande della popolazione rispetto ai contratti settoriali. Negli ultimi cinque anni il salario minimo in Spagna è quasi raddoppiato. La crisi lo aveva lasciato a 740€ al mese. Il governo di Podemos e dei socialisti lo ha portato a 1080€, un aumento del 36% in 5 anni.
La ministra del Lavoro Yolanda Diaz, di Podemos, è stata l’artefice dei complessi accordi che hanno permesso il sostegno agli aumenti di tutte le parti sociali. Almeno finora. Quest’anno, però, i sindacati chiedevano un aumento di 100€ al mese, il 10%. La Confindustria era contraria a questa cifra, viste le condizioni dell’economia spagnola, chiedeva di limitare l’aumento a 40 euro.
Per gli industriali, una crescita dei salari troppo alta rischia di innescare una spirale inflazionistica. La preoccupazione è che le aziende, sopratutto quelle piccole e di medie dimensioni, possano non essere in grado di sostenere l’aumento e quindi siano costrette a licenziare.
Ma il numero dei lavoratori beneficiati dall’aumento salariale è ridotto, appena a un 20% di tutta la popolazione attiva. Alla fine la ministra Yolanda Diaz è andata avanti da sola e ha deciso un aumento di 80€, l’8%, portando il salario minimo in Spagna a 1.080€ mensili.
A fine anno si tratta poco più di 15.000€. Una cifra che si avvicina al 60% del salario medio nazionale, la soglia raccomandata dall’Unione europea. E così la Spagna è passata al 7º posto nella classifica dei Paesi europei, ancora lontana da Francia, Germania o Lussemburgo, ma ormai vicina ai primi cinque posti.