Il vertice di Parigi dei paesi cosiddetti amici dell’opposizione siriana è finito con il nulla di fatto. Comunicati ed appelli senza nessuna azione concreta, se non l’annuncio di maggiori sanzioni contro il governo di Damasco. Un segno della mancanza di una politica estera comune e di fallimento delle strategie messe in atto finora da un’amministrazione statunitense in uscita e da un’Unione Europea in crisi di identità. Per non parlare dei partner regionali, dalla Turchia, all’Arabia Saudita e Qatar. Parole grosse contro il “genocidio in atto” ed accuse di crimini di guerra, che sembrano per il consumo dei media interni più che un tentativo di dare una mano nella soluzione vera della crisi siriana. L’unico cenno politico lo ha espresso il ministro degli esteri francese che ha annunciato la disponibilità dell’opposizione siriana a tornare al tavolo del negoziato di Ginevra senza precondizioni. A Parigi, l’opposizione siriana era rappresentata dal capo negoziatore, Riad Hijab e dal “sindaco” di Aleppo Est, Brita Hagi Hassan. Da loro nessuna dichiarazione in merito; un silenzio che denota imbarazzo per i magri risultati raggiunti e per l’incapacità di prendere decisioni coraggiose sul tema del negoziato, causa divisioni interni e condizionamenti dei governi finanziatori.
Anche sul fronte ginevrino, dove militari russi e statunitensi hanno avviato un confronto tecnico su come uscire dal confitto ad Aleppo est. Mentre i russi hanno un controllo sul territorio e sugli alleati, gli statunitensi brancolano nella nebbia. Le armi che hanno fornito o permesso che siano fornite all’opposizione sono finite nelle mani di Al Qaeda e non hanno nessun controllo politico sulle milizie, se non per interposta persona, tramite Turchia, Arabia Saudita e Qatar; paesi che agiscono per conto proprio, anche se in un limitato spazio di manovra, e operano secondo linee guida con coincidono con quelle di Washington.
Sul terreno ad Aleppo la situazione della popolazione è drammatica. Una cosa chiara è che l’opposizione è stata sconfitta ed è stata abbandonata dai suoi alleati occidentali ed arabi. Un risultato prevedibile anche a causa delle divisioni interne dell’arcipelago di milizie e le forti contraddizioni tra i capi militari operanti all’interno della Siria e i capi politici che risiedono in comodi alberghi di lusso ad Istanbul, Riad e Doha. Per non parlare della frantumazione dei gruppi di milizie in piccole formazioni al servizio di Intelligence straniere delle potenze regionali. Milizie che molte volte sono entrate in conflitto armato tra di loro per il controllo di piccole parti di territorio.
Di fronte a simile accozzaglia, il governo di Damasco ed i suoi alleati russi, iraniani, libanesi e iracheni hanno avuto gioco facile di agire come un rullo compressore. I civili intrappolati sono diventati un dettaglio e sono stati loro a pagare il prezzo più alto. La responsabilità di queste sofferenze indicibili cade su tutte le parti coinvolte nel conflitto.
I media governativi abbondano nei dettagli e nelle immagini di vecchi e bambini accolti e accuditi dai soldati, di feriti soccorsi e di migliaia di civili salvati. E per i miliziani che non si arrenderanno la promessa della morte sicura. Dall’altra parte gli attivisti locali e il centro di propaganda londinese di Abdul Rahman… continuano a sfornare cifre e storie per raccontare la sparizione di centinaia di giovani sfollati che si sono consegnati ai posti di blocco dell’esercito negli 8 corridoi umanitari tra Aleppo Est assediata e Aleppo ovest e zone limitrofe, corridoi presidiati dalla cosiddetta “Commissione russa per la riconciliazione tra le parti nel conflitto”.
Il ministero della difesa russo, da Mosca, informa che, ad oggi (11 dicembre), il 95% del territorio di Aleppo est è stato “liberato” dai governativi.
In mezzo a questi due fronti contrapposti ci sono migliaia di volontari e di attivisti che operano nell’ombra per alleggerire le sofferenze della popolazione. Sono quella parte della società civile che si oppone al governo di Damasco e non si sottomette ai diktat delle milizie islamiste. Attivisti che fanno la spola tra le linee del fronte o del cessate il fuoco, in condizioni di pericolo, per trasportare feriti e garantire l’arrivo in loco di medicine e cibo. Sono eroi che operano in silenzio e che le loro storie sono confinate nelle pagine web dei social network e non diventano mai notizie mediatiche su larga scala, perché non rappresentano un buon motivi di propaganda.
Mentre Aleppo è in agonia finale, spuntano altri due fronti di guerra. Quello reale di Palmira e quello annunciato di Raqqa. Miliziani del sedicente califfato hanno attaccato nei giorni scorsi e nelle ultime ore sembrano riusciti ad occupare la città di Palmira. L’agenzia web jihadista, Aamaq, sostiene che la zona archeologica è stata già presa e che la maggior parte della città è sotto il controllo di Daiesh. I soldati sarebbero fuggiti. L’esercito smentisce queste notizie e ammette soltanto la caduta di un suo aereo militare, “per cause tecniche” – dice il laconico comunicato militare siriano. Attivisti locali parlano sul web di spari in città e della presenza massiccia di miliziani provenienti dall’Iraq, riconoscibili dall’accento della loro parlata. I caccia russi sono entrati in azione ad est di Palmire, per tagliare le linee di rifornimento dei miliziani.
Questi risveglio del falso califfo avviene nel momento in cui le forze curde della “Siria Democratica” hanno annunciato, in una conferenza stampa, l’avvio della seconda fase dell’operazione per la liberazione di Raqqa, il capoluogo del califfato. Da Washington arriva la conferma e la spedizione in Siria di un altro contingente di consiglieri militari statunitensi, costituito da 200 unità, per dare manforte ai guerriglieri curdi. La notizia non sembra trovare accoglienza positiva ad Ankara, dove il governo ha annunciato l’invio di altri soldati in territorio siriano per rafforzare l’operazione “Scudo Eufrate”, che a parole dovrebbe sradicare il califfato, ma che in realtà è servita a colpire la guerriglia curda, spina nel fianco del nazionalismo sciovinista turco.