Berlusconi è stato lo sdoganatore.
Lo sdoganatore dei fascisti, che con lui riacquistarono agibilità politica -diventando “post”- e diedero centralità a uno sterile protezionismo culturale, appetibile per una generazione che tentava di resistere alla fine del mondo chiuso nel quale aveva vissuto, prosperando o, semplicemente, sopravvivendo.
Lo sdoganatore dei comportamenti più censurabili degli italiani. Le leggi si sono sempre violate e le norme sono sempre state aggirate. Ma solo con la sua ascesa gli atteggiamenti amorali e opportunisti hanno smesso di essere qualcosa di cui fingere di vergognarsi nel contesto pubblico.
Berlusconi ha trasformato in manifesto politico la sollevazione contro le regole, intercettando pulsioni e sentimenti diffusi. Forse tutto iniziò con il “vietato vietare”, lo slogan degli anni della contestazione manipolato per affermare il diritto delle sue televisioni a trasmettere infrangendo gli ordinamenti dell’epoca. I tempi della politica in prima persona non erano maturi ma quello era già un Berlusconi profondamente politico. Tanti anni dopo, il Parlamento approvava una mozione che rappresentò il momento più grottesco, e finale, della parabola: i deputati affermarono che Berlusconi credeva che Ruby fosse la nipote di Mubarak. Il capo di Forza Italia si avviava a uscire di scena ma aveva vinto. Aveva imposto il suo cavallo di Caligola. Aveva elevato la menzogna a verità con pari dignità rispetto a qualunque altro argomento.
Per un ventennio Berlusconi aveva condotto una guerra di delegittimazione di ogni avversario politico, della stampa non allineata, della magistratura, aveva attaccato gli organi di controllo dello Stato, aveva introdotto il nuovo concetto delle leggi “ad personam” per salvarsi dagli innumerevoli processi.
Berlusconi è stato il primo vero leader populista ad avere successo, in Europa e in tutto l’Occidente. All’inizio degli anni ’90 l’Italia fu la prima a cedere. La fine della guerra fredda aveva tolto centralità internazionale al Paese e senso al sistema politico. La corruzione aveva distrutto la credibilità dei partiti, e il loro tracollo avrebbe azzerato le forme di selezione della classe dirigente.
Berlusconi era pronto. Le sue televisioni e i suoi giornali avevano abituato gli italiani a un linguaggio semplificato, banalizzato. La metafora calcistica scalzava le antiche liturgie. La “discesa in campo” era freschezza contrapposta a tutto quello che era esistito prima, diventato improvvisamente “vecchio”. I vecchi politici, le vecchie identità, le vecchie ideologie.
C’è una fotografia eloquente: il confronto televisivo con Achille Occhetto prima delle elezioni del 1994. Da una parte l’imprenditore più ricco, il presidente della squadra di calcio più forte di tutti i tempi, abbronzato, sorridente, l’uomo che “si fa da sé”, modello ideale da invidiare sognando una utopica emulazione; dall’altra il comunista fuori dalla storia, in abito marrone e con la spilla sul bavero che “impallava” la telecamera.
Il popolo, categoria politica, che riempiva le piazze reali per i comizi e le manifestazioni era stato sostituito dalla gente, categoria impolitica, che riempiva le piazze catodiche. I diritti all’impegno e alla partecipazione erano stati scalzati dal diritto allo show televisivo, brillante e un po’ pecoreccio. Ne seguì il trionfo dell’antipolitica, di cui Berlusconi è stato al tempo stesso causa ed effetto. E al posto della politica, del sistema della rappresentanza, Berlusconi ha introdotto la pratica del partito proprietario, dove il detentore del marchio e del denaro decideva le sorti dei suoi sottoposti, impedendo qualsiasi forma di democrazia e di dialettica interne.
Oggi, negli Stati Uniti, Donald Trump si ispira a lui mentre in Europa il populismo è una tendenza che rischia di diventare egemonica.
In Italia, gli epigoni di Berlusconi lo sdoganatore, l’uomo del rifiuto della politica, della gente in luogo del popolo, del mito della rivolta contro le élites, sono facilmente riconoscibili.