Martedì 12 Marzo è stata sequestrata dalla Procura di Santa Maria Capua Vetere, la sede dell’associazione che gestisce lo Sprar di Caserta, il centro sociale Ex Canapificio. L’associazione assiste 200 migranti suddivisi in venti appartamenti. La sede è stata sequestrata perché, secondo i periti, i capannoni sono fatiscenti e c’è un concreto pericolo di crollo. Il Ministro dell’Interno aveva segnalato proprio quello Sprar come un luogo da sgomberare tra i primi definendolo abusivo. Migranti le cui storie sono interessanti anche in relazione al tipo di vita che sono costrette a fare in Italia, dovendosi confrontare tutti i giorni con il caporalato.
Gianluca uno degli attivisti dello Sprar di Caserta e coordinatore del progetto, ci racconta le storie di questi 200 migranti che tutti i giorni sono costretti a confrontarsi con il caporalato.
Dove verranno accolti adesso?
Il progetto di fatto sta ancora in piedi, perché i venti appartamenti sono dislocati in città. Quella che è stata messa sotto sequestro è la sede legale dell’associazione Ex Canapificio. Ironia della sorte, il 6 febbraio la procura ha mandato 90 carabinieri alle 4:00 del mattino in tutti questi appartamenti a fare i controlli, senza aver trovato nulla da riscontrare, condizioni igieniche e sanitarie perfette. Fa abbastanza ridere che in terra di camorra 90 Carabinieri vengano usati così per poi non trovare assolutamente nulla.
Pensi che le parole del Ministro dell’Interno abbiamo determinato o contribuito a creare le condizioni per determinare queste azioni?
Io non so quanto direttamente o indirettamente, sicuramente mi viene da pensare che qualcuno che vuole far carriera in questo momento politico può essere tentato di dare un segnale. Fa ridere che hanno fatto questa maxi-operazione e alla fine ci fanno chiudere per infiltrazioni d’acqua.
Ci sono i racconti di questi ragazzi che girano tutto il sud Italia per centinaia di chilometri seguendo in qualche modo le stagioni della raccolta della frutta e della verdura per due lire, seguendo fondamentalmente i caporali, è giusto?
Noi al momento abbiamo 18 000 africani nel progetto e sono tutti comunque vittime di caporalato o agricolo o edilizio seguono un po’ una geografia stagionale ma tornano sempre a Caserta per assistenza legale e cose varie. Io personalmente mi occupo dello sportello lavorativo. Qua i migranti sono manodopera a basso costo.
Che vita fanno queste persone?
Vi racconto un aneddoto per farvi capire, c’è un problema culturale: nei casi di procedure legali contro il datore di lavoro, spesso quest’ultimo non capisce nemmeno perché è stato denunciato. Una volta un titolare non aveva pagato sei mesi di stipendio ad un ragazzo che poi si è fatto male con un macchinario, e non l’ha portato all’ospedale lasciandolo in mezzo alla strada perché “tanto sapeva dov’era l’ospedale”. Il giorno dopo è andato a prendere un altro ragazzo. In sede di trattativa legale, il datore di lavoro ha poi detto: “ragazzo dì la verità, ma io ti ho mai picchiato?”. Ma che vuol dire non mi hai mai picchiato?
Io parlo della mia esperienza al sud, ma riguarda tutta Italia. Lo stesso Expo è stato costruito con i migranti che vengono da qua. Molti migranti che seguiamo, quando stavano costruendo l’Expo, ci dicevano che stavano lavorando a Milano alla sua costruzione. Ma la cosa davvero impressionante è la mentalità secondo la quale dei migranti non si butta via nulla, come il maiale.
Dove c’è sfruttamento lavorativo c’è anche sfruttamento abitativo. Vi racconto un altro aneddoto per farvi capire. Venne da noi una ragazza che aveva da poco perso il compagno e che aveva un bambino di 6 anni. Nello stesso periodo, il proprietario di casa le aveva alzato l’affitto di €100. Quando lei disse che nella sua situazione non riusciva per il momento a pagare la maggiorazione, il proprietario rispose che poteva ridurle l’affitto in cambio di qualche prestazione sessuale occasionale. Sono casi abbastanza frequenti purtroppo. La cosa che mi colpi tantissimo è che io telefonai a quest’uomo e lui non negò, anzi mi disse: “Ma ste nere la danno a tutti, è un problema darla a me?”. Cosa risponde a un uomo che dice una cosa del genere?
È così profonda la convenzione di poter fare quello che si vuole? Di poter disporre di queste persone?
È un problema antropologico, noi siamo seriamente convinti che queste vite valgano di meno.
“Noi” tu lo definisci come occidentali, come borghesi, italiani?
Il razzismo è un problema occidentale però ogni Paese ha una sua peculiarità. Noi siamo un paese che è cresciuto con il Sussidiario quando eravamo piccoli, l’Africa era riassunta in due pagine. E noi siamo cresciuti con la mamma che ci diceva “mangia perché in Africa muoiono di fame”, per noi l’Africa è sempre stata più in imperativo morale piuttosto che una realtà concreta. Uno stereotipo continuo. Quando invece arrivano qui e sono persone in carne ed ossa con tutte le loro complessità e i loro caratteri, rimaniamo spiazzati e diventiamo razzisti perché non corrispondono all’idea distorta che avevamo di loro.
Io lavoro da anni con questi ragazzi, ho creato un laboratorio artistico musicale perché mi piace che pensino di esser qui non solo per esser manodopera. Una delle cose più belle è che quando loro si trovano sul palco dicono: “Qui io sono Mohamed, mentre quando sono alla rotonda sono uno stronzo, un negro”. Sono ragazzi che ci provano, e che qualcuno li consideri come individui è qualcosa di incredibile per loro. Fa pensare a cosa provano tutti i giorni. In 10 anni che vivo e lavoro con i migranti mi sono fatto una mia idea, quando mi chiedono chi è un migrante rispondo: una persona che ha un passato che gli manca, un futuro che non è chiaro e un presente che non lo vuole. Sappiamo cosa vuol dire vivere così tutto il giorno?
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