Ancora una volta, il futuro dell’Europa dipende dalla Grecia. Da sette anni ormai sull’orlo della bancarotta, il Paese riceve mille migranti al giorno e non riesce a frenare il flusso di chi arriva sulle sue coste dalle isole turche.
Ieri ad Amsterdam è andata in scena la peggiore Europa di questi ultimi mesi: l’Europa del tutti contro tutti. I Paesi del Nord, luogo di destinazione dei migranti, chiudono le loro frontiere e intimano alla Grecia di registrare chi arriva, per evitare di dover fare loro il lavoro. E per fare più male ad Atene promettono di intensificare gli aiuti alla Macedonia, nemico storico della Grecia, inviando uomini e soldi alla frontiera. È da lì che comincia la rotta balcanica, uno dei corridoi più battuti nel 2015 dai profughi in fuga: quasi 900 mila transiti nel 2015, 40 mila solo nel gennaio 2016.
Di fatto, quindi, al Nord già mettono la Grecia fuori da Schengen. Il ministro dell’interno greco Iannis Mouzalas si offende e giura che non si può controllare meglio una costa marina, tranne lasciando annegare i migranti in mare. Ma non basta a scrollare di dosso dalla Grecia la responsabilità di far sopravvivere o meno Schengen.
La Commissione europea dovrà portare avanti un’indagine sul sistema di accoglienza ellenico: se entro tre mesi il premier Tsipras non avrà ripreso il controllo della situazione, almeno cinque Paesi europei otterranno il via libera per la sospensione dello spazio Schengen, quindi il ripristino delle frontiere interne per due anni. In nome della “clausola di salvaguardia” con la quale dei Paesi membri, per motivi di sicurezza, possono invocare il ripristino delle frontiere. Gli effetti? Potrebbe allora venir fuori quella mini-Schengen del Nord a cui pensa da un po’ di tempo la Germania, da cui Italia e Grecia resterebbero fuori.
In questo clima da Risorgimento, la Danimarca approva oggi una contestatissima legge sull’asilo dove saranno confiscati gioielli e beni mobili ai richiedenti asilo per contribuire alle loro spese di soggiorno. Il ricongiungimento familiare sarà impossibile per i primi tre anni di permanenza a Copenhagen. Difficile in questo clima capire da dove si può ripartire per salvare l’Europa.