Eugenio Scalfari, morto a Roma a 98 anni, è stato un pezzo del secolo scorso italiano: quello in cui i giornali erano la guida del ceto intellettuale ed erano strumenti capaci di incidere profondamente nell’egemonia culturale, nel modo di pensare, nella politica.
Un ruolo di potere, quindi, che Scalfari ha interpretato nel più efficace dei modi, convinto che nel fare giornali ci fosse più potere che nel fare politica, perché era con i giornali che si cambiava l’opinione pubblica e si influenzava la politica.
Ed è stato così che, dopo aver frequentato il partito liberale e quello radicale, nel 1955 Scalfari fondò L’Espresso, che all’inizio era un cenacolo di intellettuali di matrice azionista convinti di avere la missione di modernizzare l’Italia, emancipandola dal dualismo fra Democrazia Cristiana e Partito comunista
L’esperimento di via Po riuscì: c’era un pezzo di Italia intellettuale e laica che si identificava in quella visione.
Il vero salto però avvenne vent’anni dopo, quando Scalfari trasportò la stessa formula in un quotidiano, La Repubblica, che vide la luce in un Paese più moderno e avanzato rispetto agli anni Cinquanta, quindi con un pubblico potenziale molto maggiore.
Di nuovo, funzionò. Anche perché da abile direttore Scalfari faceva un prodotto editoriale aperto, o come diceva lui “libertino”, che spaziava dai moderati alla sinistra extraparlamentare, e capace di mescolare l’alto e il basso, pagine culturali raffinate e gossip.
A successo ottenuto, 15 anni dopo, Scalfari vendette Repubblica a De Benedetti, diventando ricco ma finendo per essere rimosso dalla direzione, nel 1996.
Il resto è stato un lunghissimo tramonto e un graduale allontanamento dalla vita della sua creatura, fino alla vendita agli Agnelli che per convenienza e vecchiaia Scalfari assecondò, rifugiandosi in articoli filosofici sempre più distanti dal reale, in un giornale ormai snaturato.
Resta la figura novecentesca di un grande giornalista, di un grande uomo di potere ma anche di un uomo di spirito, divertente e divertito, molto diverso – nella vita quotidiana di redazione – dall’immagine pubblica così seriosa e istituzionale