Nadezda Azhgikina è la vice presidente della Federazione europea dei giornalisti e per 15 anni ha guidato l’Unione dei giornalisti russi. Partecipa e coordina progetti internazionali su libertà di stampa, diritti umani, gender e cultura. È autrice o curatrice di 18 saggi su questi argomenti. L’abbiamo intervistata al Festival dei Diritti umani di Milano.
“In Russia non abbiamo giornalisti in carcere, a parte qualche caso isolato” spiega Nadezda Azhgikina. “Da noi non è come in Turchia. In Russia però abbiamo un enorme numero di giornalisti uccisi. Dal 1990, in 27 anni, abbiamo scritto almeno 359 nomi sulla lista dei nostri colleghi uccisi in aree di guerra o assassinati in circostanze misteriose.
Un paio di settimane fa abbiamo avuto l’ultima vittima: Nikolai Andrushchenko, 73 anni, di San Pietroburgo. È stato selvaggiamente picchiato da sconosciuti ed è morto in ospedale” (secondo il quotidiano The Independent aveva spesso criticato il Presidente russo Putin e aveva a lungo denunciato la corruzione nella sua città, ndr)
In Russia c’è una cultura dell’impunità: lo ripetiamo ad alta voce da quando è stata assassinata Anna Politkovskaya. Tutti i casi su cui la magistratura non ha mai indagato hanno generato nuova violenza”.
Come si è arrivati a questa situazione?
“Il problema è che il pubblico russo non capisce che la libertà di espressione, l’accesso alle notizie e l’incolumità dei giornalisti non sono problemi che riguardano solo i giornalisti. Sono un problema di tutti. E finché il pubblico russo non ne sarà cosciente, sarà molto difficile combattere l’impunità.
Non è solo una questione di volontà politica. A volte i giornali non premono perché siano fatte le indagini, a volte nessuno sa che un giornalista viene aggredito o ucciso perché magari accade in provincia, in una piccola cittadina: non ne veniamo a sapere neppure il nome. Noi cerchiamo di capire cosa è successo, ma con molta fatica. Abbiamo bisogno dell’aiuto della gente comune per denunciare questi casi”.
Qualche esempio?
“Un caso recente riguarda i giornalisti del quotidiano Novaya Gazeta (il giornale di Anna Politkovskaya, ndr) che sono stati minacciati di morte per le notizie che hanno pubblicato sulle persecuzioni contro gli omosessuali in Cecenia. Delle autorità religiose cecene hanno emesso addirittura una fatwa contro di loro, solo perché hanno svolto il loro lavoro e denunciato questi casi.
In Europa molti hanno espresso solidarietà, ma in Russia davvero poche testate si sono schierate accanto a quei giornalisti. Non ho visto neppure lettori russi protestare contro queste minacce”.
Cosa si può fare?
“Bisogna tener presente che in Russia il problema è generalizzato e non colpisce solo i giornalisti. Anche scrittori e registi subiscono minacce: in genere, non da parte delle autorità, ma da parte di gruppi estremisti o marginali su cui poi nessuno indaga.
Per fortuna è nata da poco una nuova associazione che vuole battersi proprio per difendere la libertà di espressione. Si chiama Freedom of Speech e ne ho scritto di recente in un articolo.
Il problema non sono le leggi: le leggi che garantiscono la libertà di espressione, in Russia, le abbiamo. Il problema è che in Russia nessuno ha davvero lottato per ottenere la libertà di stampa. Ci è arrivata dal cielo, come un regalo, durante la perestroika.
I Russi non si sono abituati a conquistarsi questo diritto con una lunga battaglia quotidiana, che va fatta passo per passo, giorno per giorno. In Europa o in Italia la gente capisce il valore della libertà di espressione, a prescindere delle idee politiche di questo o quel giornalista.
Questo Festival dei Diritti umani e festival come questi sono importanti per il pubblico per capire che la vita e l’ambiente in cui viviamo dipendono da noi e dalle nostre decisioni”.