La legge sulla concorrenza è un tuffo nel passato, alle privatizzazioni degli anni’90. E un calcio all’autonomia dei Comuni. Acqua, energia, rifiuti e trasporti locali dovrebbero essere, infatti, secondo l’articolo 6, gestiti dai privati e solo eccezionalmente dal pubblico. La questione è talmente ideologica che nel testo di legge viene scritto: il mercato tutela la salute, i diritti e la giustizia sociale. Con buona pace di Stefano Rodotà, del referendum sull’acqua pubblica del 2011 e di un decennio di dibattito sui beni comuni approdato più volte in Parlamento e ancora in discussione nella commissione ambiente – guarda caso – con una legge d’iniziativa popolare.
Le privatizzazioni e le gestioni private dei servizi essenziali sono costose e non realizzano investimenti ma sprechi, perché sono monopoli che pescano nelle tasche dei cittadini. Impoveriscono le istituzioni locali e hanno un tasso di connivenza con la politica enorme, basta contare gli scandali in tutta Europa, mica solo da noi. Non funzionando vengono giustificate con il mantra “lo vuole l’Europa”, per darci i fondi del next generation, e poi hai presente le grandi aziende di servizi quotate in borsa. Il modello che ha in testa Draghi è quello. D’altronde già vent’anni fa, a pochi giorni dalla vittoria del referendum popolare sull’acqua, l’allora governatore della Banca d’Italia ribadiva la necessità della gestione privata dei servizi locali. Ora che è al governo e Confindustria lo chiama proprio “l’uomo della necessità”, il Parlamento dovrebbe ricordargli la volontà popolare e aprire un confronto, lo chiede Sinistra italiana e qualche voce nei 5Stelle. E sarebbe un bel tema di ricostruzione per un centrosinistra popolare, plurale e ambientalista.
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