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“Rigore e Fascino: il cinema di Chantal Akerman”. L’intervista a Sylviane Akerman

La regista Chantal Akerman

Dieci anni fa moriva suicida la cineasta belga Chantal Akerman. Regista sperimentale, ma che ha avuto anche un successo popolare con il film “Un divano a New York” con William Hurt e Juliette Binoche. In questi giorni la Cineteca Italiana le ha dedicato una retrospettiva dal titolo “Rigore e Fascino: il cinema di Chantal Akerman”. In questa occasione, Barbara Sorrentini ha incontrato e intervistato Sylviane Akerman, presidente della Fondation Chantal Akerman e sorella della regista. L’intervista è andata in onda a Cult e a Chassis.

Volevo cominciare proprio da un film come “Jean Dielman”, in cui è protagonista una donna, ed è un film del 1975, che parla ancora molto ad oggi. Cosa ne pensa, se ci può dire qualcosa su questo lavoro?

Chantal ha iniziato a girare il film “Jean Dielman” nel 1974, a settembre del 1974, quando aveva 24 anni e non si aspettava che il film avrebbe avuto tutta quella forza. Quando poi l’ha fatto vedere al Festival di Cannes, a maggio del 1975, il pubblico era molto diviso, c’è chi è uscito dalla sala e chi invece l’ha chiamato un capolavoro.
E per tanti anni la reazione generale è rimasta questa, sono le nuove generazioni che hanno capito il valore di questo film, che nel 1975 forse era troppo diverso da quello che c’era in giro. Due anni fa il British Film Institute l’ha dichiarato, attraverso un sondaggio, il film migliore della storia del cinema, il che è stato davvero fantastico per far conoscere il film a chi non lo conosceva e da allora c’è stato un boom di interesse.

In quel periodo nel 1975 ma anche dopo, cosa significava essere una regista donna, non mainstream, che amava il cinema sperimentale, ispirata da Godard, da Mekas e da un cinema molto diverso da quello che andava in voga in quel periodo?

Chantal Ackerman ha sempre detto che il suo cinema non poteva essere un cinema “da uomo” perché lei era una donna, quindi quello che ha fatto con “Jean Dielman” è stato filmare quello che vedeva attorno a sé, anche nella struttura della sua famiglia. Si è ispirata per esempio alle zie che andava a trovare ogni settimana e ha filmato qualcosa che le era molto familiare, ma che non le apparteneva. Chantal non era così metodica, non faceva tutti i giorni la stessa cosa come invece succede nel film.

C’è una parte del cinema di Chantal Ackerman dedicato a dei temi più politici, penso all’antirazzismo, agli immigrati e a dei luoghi come l’America Latina, la Russia, l’Ucraina. Lei ha suddiviso un po’ i documentari con queste storie, quell’aspetto lì lo racconta esattamente come lo ha vissuto?

Il tema dell’immigrazione e del razzismo è legato alla storia familiare; nostra madre è sopravvissuta alla Shoa e Chantal è nata nel 1950, quindi pochi anni dopo la Liberazione di Auschwitz. Il fatto di essere nata è stato quindi un miracolo e ha ereditato molto di quello che aveva vissuto nostra madre. Questo suo interesse è generato dal fatto che i nostri genitori sono nati in Polonia e poi sono emigrati in Belgio. Sono le nostre radici. Chantal ha realizzato film sull’immigrazione in Messico e in “D’Est” mostra immagini che vedeva nei suoi incubi, come per esempio file di persone che aspettano, non si sa bene cosa. Tutte queste immagini rappresentano le sue radici e quella che è stata la sua eredità familiare.

C’è un documentario dedicato a vostra mamma, come è stato realizzato?

Il film dedicato a nostra madre è stato girato tra il 2013 e il 2014 e all’inizio Chantal non pensava di fare un film, riprendeva senza che la mamma se ne rendesse conto. Aveva sempre l’abitudine di avere attorno delle telecamere, quindi qualche volta sapeva di essere filmata e altre volte no. Erano i suoi ultimi mesi di vita, stava male e Chantal voleva che le raccontasse dei mesi passati ad Auschwitz perché non ce ne aveva mai parlato. Sperava che le raccontasse qualcosa di più reale rispetto a quanto avesse mai fatto prima. Alla fine si è trovata con 36 ore di girato e con questo materiale ha deciso di fare un documentario, ha montato le immagini e ha detto “ecco questo film è su mia madre”, però non era stato pianificato.

Ci può raccontare un suo ricordo personale su sua sorella?

Io ero la figlia minore e avevamo otto anni di differenza: Chantal era la mia sorella maggiore. Uno dei miei ricordi più lontani è quando ha cominciato a sedici anni a fare cinema, quando ha dovuto girare un film per candidarsi per una scuola di cinema.
Ha girato un 8mm in cui recitavano mia madre e un’amica che si chiama Marie. Siamo andate al Mare del nord e Chantal ha girato lì il suo primo film, ha sempre conservato quell’8mm in una scatolina. È stata lasciata a scuola, ha avuto un ottimo risultato, ma poi io quel film non l’ho più visto. Due anni fa l’abbiamo ritrovato e la Cineteca Belga l’ha restaurato e ora lo mostriamo a tutte le esposizioni che organizziamo. Nel primo film ci sono anche io e ho anche moltissimi altri ricordi.

Secondo lei qual è l’eredità che lascia Chantal Ackerman con il suo cinema alle nuove generazioni?

I giovani che studiano cinema all’università o nelle scuole di cinema e hanno professori che parlano del cinema di Chantal Ackerman, poi vengono inevitabilmente influenzati dai suoi film. La Fondazione riceve molte domande per venire a visitare gli archivi e per leggere gli scritti di Chantal ed era proprio quello che volevamo. Il nostro obiettivo era quello di mostrare alle nuove generazioni il suo cinema, la sua arte. Prima dell’inaugurazione della Fondazione il pubblico dei film di Chantal Ackerman era la gente della sua generazione, adesso invece quando organizziamo eventi ci sono moltissimi giovani, quindi abbiamo fatto un buon lavoro.

  • Autore articolo
    Barbara Sorrentini
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