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Ricchissimi e cattivi, arriva la terza serie di “Succession”

Famiglie ricchissime e numerose sono da sempre protagoniste ricorrenti della serialità televisiva, in particolar modo nella soap opera e negli show che a una soap opera assomigliano: fin dai tempi di Dallas e Dynasty, la lotta per il controllo di imprese o eredità milionarie garantisce automaticamente un’alta dose di melodramma, un susseguirsi di tradimenti, alleanze e pugnalate alle spalle, insomma, ampio materiale narrativo. C’è però, quasi sempre, anche un doppio piacere opposto, più o meno nascosto: per la maggior parte degli spettatori, si tratta anche di spiare la grandiosità di vite inaccessibili, magari sospirando d’invidia e poi consolandosi con la consapevolezza che, sì, “anche i ricchi piangono”. Negli ultimi anni, però, è emersa qualche narrazione che, pur non rinunciando al piacere di cui sopra, prova ad adottare con i ricchi in questione uno sguardo più critico, e a proporlo, di conseguenza, al pubblico. Invece che ammirarne il privilegio, si cerca di esporlo, di identificarlo come forma spietata e inaccettabile di oppressione: «Non hai fatto le scelte giuste, hai avuto le possibilità giuste» spiega duramente Mia, nera e povera, alla bianca e privilegiata Elena nella miniserie di Prime Video “Little Fires Everywhere”. Sulla piattaforma Infinity è arrivata da qualche mese “Schitt’s Creek”, comedy di grandissimo successo e vincitrice di un numero record di Emmy, che in Italia era ancora inedita, nonostante ben sei stagioni: la storia è quella di una famiglia di miliardari, stupidi, meschini e scollegati dalla realtà, che perde tutto, si trasferisce in un paesino nel mezzo del nulla e impara, con molta fatica, un minimo sindacale di empatia. E la scorsa estate è andata in onda, anche qui in Italia su Sky, “The White Lotus”, una dramedy ambientata in un lussuosissimo resort delle Hawaii, capace di mettere in luce impietosamente l’ignoranza, l’egoismo e la crudeltà che un’esistenza immersa nel privilegio produce nei confronti del resto del mondo – soprattutto, in questo caso, nei confronti della popolazione indigena che, occupando solo ruoli di servizio per i ricchi clienti bianchi, vive un’ennesima forma di colonizzazione.
La serie che più di tutte, però, porta avanti questo discorso è “Succession”, di cui dal 29 novembre è in onda su Sky e Now la terza, attesa, stagione, dopo una pausa di un anno causa COVID-19. Creata da una penna inglese, Jesse Alexander, e prodotta dall’americano Adam McKay – di cui sta per uscire su Netflix il film “Don’t Look Up” con Leonardo DiCaprio, Jennifer Lawrence e Meryl Streep -, “Succession” è la storia della famiglia Roy, fittizia ma modellata su grandi dinastie delle telecomunicazioni come i Murdoch, e in questa terza annata la vediamo spaccarsi nello scontro testa a testa tra il patriarca Logan (interpretato dal grande attore shakespeariano Brian Cox) e uno dei figli, l’ex erede designato Kendall (Jeremy Strong, che ha vinto un Emmy per il ruolo).
La trama è la stessa delle molte soap di cui parlavamo all’inizio: un impero economico e finanziario, e una famiglia numerosa (compresi anche i membri acquisiti, i vassalli, gli alleati) che si sbrana per il suo possesso. Ma “Succession”, ogni stagione più della precedente, dimostra di avere un’anima satirica affilata, uno sguardo impietoso su personaggi consumati dal desiderio di potere e, ancora una volta, dal loro stesso privilegio: incapaci di sincerità, costantemente impegnati in strategie per fregare i membri della propria famiglia, e incessantemente assediati dai “nemici” esterni che vogliono far loro le scarpe – siano essi le altre imprese concorrenti, l’FBI, la politica, l’opinione pubblica. Se Succession funziona, però, è anche perché non si tratta di un semplice ritratto manicheo intento a dipingere i ricchi come cattivi imperscrutabili e lontani: tra le tante risate che i loro comportamenti ridicoli ci fanno fare, si annida anche la consapevolezza che, dalla tossicità del privilegio, nessuno è immune. Come ci comporteremmo, noi, in questo gioco dei troni? La risposta è meno semplice di quel che vorremmo, e ci punge sul vivo.

  • Autore articolo
    Alice Cucchetti
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    Le nostre mani ci permettono di entrare in contatto con il mondo e con la realtà che ci circonda, creando relazioni di vicinanza e intimità. Tuttavia, il nostro tocco è sempre più influenzato e mediato dalla tecnologia, che cambia il modo in cui viviamo e ci relazioniamo con gli altri. Nella performance partecipativa "Hands Made" le mani diventano protagoniste: gli spettatori sono invitati, nell’oscurità, a osservare la propria mano e quelle dei vicini, isolate dal corpo. L’artista turca Begüm Erciyas indaga così le trasformazioni del nostro rapporto con il tocco nel corso della storia per ripensare e riscoprire il senso del tatto e del contatto. Oggi a Cult da Ira Rubini ospite proprio l'artista turca per parlare del suo "Hands Made", alla Triennale Milano il 15 e 16 marzo.

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