Approfondimenti

La conquista russa della regione di Lugansk, il campo largo di Enrico Letta e le altre notizie della giornata

Lavrov ANSA

Il racconto della giornata di martedì 7 giugno 2022 con le notizie principali del giornale radio delle 19.30. I russi rivendicano la conquista del 97% della regione di Lugansk, nel Donbass. Le aree residenziali di Severodonetsk sono sotto il controllo di Mosca, dice il Ministro della Difesa russo. L’ex presidente russo Medvedev alza la tensione: “odio gli occidentali, vorrei farli sparire”. I
ntanto il Ministro degli Esteri russo Lavrov é arrivato ad Ankara per incontrare il suo omologo turco che tenta la mediazione per creare corridoi sicuri per l’esportazione del grano attraverso il Mar Nero. In vista del voto di domenica, Letta guarda al voto del 2023 puntando più sul campo largo che sull’autosufficienza di cinque anni fa. Dopo mesi di trattative è arrivata la direttiva Europea sul salario minimo, ma è solo una raccomandazione, che entrerà in vigore tra due anni, a raggiungere un livello salariale dignitoso o rafforzando la copertura dei contratti nazionali, o con un salario minimo legale. Ma è una leva debole per l’Italia dove cambierà poco. Le discriminazioni fanno male alla salute: le persone transgender, lo riporta uno studio dell’Istituto Superiore di Sanità, sono più soggette a depressione, partecipano meno alle campagne di screening e nel 46% dei casi non hanno fiducia nei servizi sanitari. Dopo il voto della maggioranza Tory sulla fiducia al premier britannico, la leadership di Boris Johnson continua a rimanere in bilico. Infine, l’andamento della pandemia di COVID-19 in Italia.

Mosca rivendica la conquista del 97% di Lugansk

La guerra in Ucraina. Il Cremlino oggi ha rivendicato la conquista del 97% della regione di Lugansk, nel Donbass. Mentre il governo di Kiev ha denunciato che a Kherson i russi hanno creato delle camere di tortura dove sono detenute 600 persone.
Oggi il Ministro della Difesa Russo Sergei Shoigu ha dichiarato che le aree residenziali di Seberodonetsk sono sotto il controllo di Mosca, mentre si combatte ancora nelle aree industriali attorno alla città. Pesantemente bombardata anche la città di Lysychansk, uno degli ultimi bastioni ucraini nel Lugansk, “È in corso la distruzione totale, i russi stanno utilizzando tattiche di terra bruciata”. ha dichiarato all’Associated Press il governatore ucraino del Lugansk, Sergiy Gaidai. Sulla resistenza Ucraina nel Donbass ascoltiamo Andrea Sceresini, giornalista freelance da poco rientrato dall’Ucraina:

Nel Donbass non si stanno scontrando solo ucraini e russi. Di oggi la conferma della morte di un cittadino tedesco combattente volontario nella Ildu – Legione internazionale di difesa territoriale dell’Ucraina. Michele Migone:


 

Erdogan tenta di mediare sul blocco del grano

(di Omar Caniello)

Domani è previsto l’incontro tra il Ministro degli Esteri russo Lavrov con il suo omologo turco Cavusoglu. Oggi c’è già stato un colloquio telefonico tra i ministri della Difesa di Russia e Turchia, non si conoscono i dettagli. Il presidente Erdogan nelle scorse ore si è detto ottimista ma la mediazione resta complessa. Quello che si sa fin ora è che Ankara si è proposta di scortare con le sue navi militari tutte le navi in ​​partenza dai porti ucraini. Uno dei nodi principali riguarda le mine che si trovano nel tratto di mare davanti ad Odessa. Oggi il governo ucraino ha dichiarato che anche se Mosca accettasse di togliere il blocco navale ci vorrebbero mesi per sminare quel tratto di mare. Si stima che più di 20 milioni di tonnellate di grano siano bloccate nei silos dell’Ucraina, con conseguenze pesantissime a livello globale.
Sempre sul fronte diplomatico ci sono da registrare le dure parole del vicepresidente del Consiglio di sicurezza russo ed ex presidente della Federazione russa. Medvedev che su Instagram ha scritto “odio chi è contro la Russia, farò di tutto per farli sparire”.

Il mini esperimento di Letta per le prossime amministrative

(di Anna Bredice)

“Il campo largo è meglio dell’autosufficienza”. L’ha detto Enrico Letta a proposito delle amministrative di domenica, una dichiarazione che è insieme un programma per il futuro e una critica al passato, a chi 5 anni fa nelle 26 grandi città dove si va al voto tra qualche giorno scelse l’autosufficienza e perse, lasciando 18 tra capoluoghi di regione e di provincia al centrodestra. L’autore di quelle scelte fu Renzi e da allora ne è passata di acqua sotto i ponti, altri governi, scissioni e nuovi partiti e ora Renzi in alcune città sostiene addirittura il centrodestra, come accade a Genova. Quindi il campo largo di Letta è un mini esperimento per ora e una speranza per il 2023, l’appuntamento a cui guardano tutti sia a destra che a sinistra con coalizioni però poco stabili. Enrico Letta sta facendo esercizio di grande pazienza in queste settimane nei confronti di Conte, cercando di non creare rotture sui temi che i Cinque Stelle rilanciano per non perdere consensi, le armi in Ucraina per primo. Il segretario del PD vuole tenere salda l’alleanza, infatti vanno insieme in 18 su 26 città, quasi sempre però con candidati sindaci che non sono del Movimento.
Un campo largo che parte da due e non è un gran risultato perché il suo progetto era quello di arrivare alle politiche tenendo insieme una coalizione molto più larga: Cinque Stelle, sinistra, liste civiche e magari aperta anche al centro di Calenda e Renzi. Al momento è impossibile, dove c’è Conte non c’è Renzi. Il sostegno al governo Draghi e alle riforme, la scelta per il Quirinale e poi ancora le decisioni sulla guerra hanno premiato il PD e il suo segretario che finora ha seguito una linea coerente con le sue idee, ma le amministrative pongono il tema di quali alleanze creare per vincere, quali scelte fare per un programma di governo, di sinistra assecondando quelle spinte progressiste che arrivano dai Cinque Stelle oppure più moderato e riformista guardando al centro. In sostanza, Letta deve dare ancora se non un’anima almeno delle linee guida per il futuro. E su questo si misurano le risposte che Letta deve dare su temi che riguardano l’economia, la società, il sostegno ai redditi e la politica fiscale.

Cosa cambierà con la direttiva europea sui salari minimi?

(di Massimo Alberti)

La direttiva europea nasce da una mediazione tra diversi interessi economici e dei diversi paesi, il cui punto di equilibrio è suggerire agli Stati un aumento di salari che passi o dall’allargamento della contrattazione, o da un salario minimo legale. Senza obblighi e senza obbiettivi chiari. Una leva debole per l’Italia, unico paese con i salari diminuiti negli ultimi 30 anni, con la quota di lavoro povero peggiore dell’Europa occidentale.
Tutti i partiti hanno depositato le proprie proposte di legge sul salario minimo, ma a volerlo davvero portare avanti sembrano solo i 5 stelle, con la proposta più articolata, a firma Catalfo, impaludata dagli emendamenti anche dei possibili alleati del PD. Tra i sindacati, dopo le aperture di Cgil e più cautamente della Uil la Cisl è rimasta sola – in tutta Europa verrebbe da dire – ad opporsi.
Paradossalmente l’Italia rispetta già la direttiva per copertura della contrattazione collettiva, intorno al 90% del lavoro dipendente. Ma in quella percentuale ci sono anche lavoratori di contratti nazionali, come il multiservizi, con minimi che rasentano la soglia di povertà, e i famigerati contratti pirata. All’Italia, per evitare possibili guai, potrebbe bastare una leggina sulla rappresentanza, su cui a parole sono d’accordo tutti, per evitare che sindacati gialli di comodo o creati ad hoc firmino contratti di povertà. Ma la direttiva, ai fini di arrivare al salario minimo, per l’Italia non cambia nulla. La battaglia politica è ancora tutta da fare e chiede ben altro impegno, degli stessi sindacati, per un minimo di civiltà che non arriverà ora, non in questa legislatura dove non si vede spazio nemmeno per compromessi al ribasso, non con Draghi. Ce lo chiede l’Europa, stavolta, non diventerà un mantra come quando si trattava di tagli.

Le discriminazioni fanno male alla salute: lo studio dell’ISS

(di Chiara Ronzani)

Le discriminazioni fanno male alla salute. Secondo un rapporto presentato dall’Istituto Superiore di Sanità nel mese del Pride, le persone transgender si ammalano di più, si curano di meno e sono più soggette a stili di vita non salutari. I servizi sanitari sono impreparati ad occuparsi delle persone transgender, e questo influisce negativamente sulla loro salute.
Ad ammetterlo sono gli stessi medici, che riferiscono di non aver ricevuto alcuna formazione e di essere in difficoltà quando si devono rapportarsi a una persona trans.
Dall’altra parte, il 46% degli intervistati si sente discriminato, e per mancanza di fiducia o per lo stress provato a contatto con i servizi, decide di non curarsi. Così, gli screening di prevenzione oncologica hanno dati di partecipazione estremamente più bassi rispetto alla popolazione generale. Solo il 20% delle persone assegnate donna alla nascita si sottopone al pap test.
Non solo, il tasso di depressione è del 40%, 10 volte più alto della media. Su questo dato giocano un ruolo il minority stress, il cosiddetto stress delle minoranze, episodi transfobici e transfobia interiorizzata.
L’effetto è quello di stili di vita meno salutari: il 60% delle persone transgender dichiara di non fare attività fisica, il tasso di fumatori è di 12 punti percentuali più alto e l’uso eccessivo di alcool ricorre in maniera più frequente della popolazione generale.
Per promuovere il benessere e la salute delle persone transgender occorre che la società, medica in primis, ma non solo, metta da parte stereotipi e pregiudizi, e inizi ad aprirsi alle diversità, conoscendo, studiando. È uno degli obiettivi della medicina di genere, che punta ad offrire cure più mirate e ad abbattere i costi sociali e personali delle discriminazioni.

La leadership di Boris Johnson resta in bilico

Nel Regno Unito resta in bilico la leadership di Boris Johnson. Del premier britannico ha parlato anche il presidente ucraino Zelensky. “Boris Johnson è un vero amico dell’Ucraina. Sono felice di non aver perso un alleato importante”, ha detto Zelensky, commentando il voto della maggioranza Tory sulla fiducia al premier britannico. Ieri sera Johnson si è salvato con circa 60 voti di scarto. Tuttavia, per il premier il pericolo non è scampato. Oggi ha cercato di rilanciare l’azione di governo, ma il suo appello non ha convinto le voci critiche del partito. Quali sono le sue chance di rimanere a Downing Street? Il nostro collaboratore dal Regno Unito Daniele Fisichella:

I sostenitori di Johnson sono convinti che il premier vada lasciato lavorare, e che in questi mesi abbia preso molte decisioni giuste – dalla campagna vaccinale all’appoggio all’Ucraina. Johnson rimane popolare tra i britannici? Sentiamo ancora Daniele Fisichella:


 

L’andamento dell’epidemia di COVID-19 in Italia

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