Per ascoltare del buon blues bisogna andare to the other side of the tracks, dicono a Birmingham. Un modo di dire che significa che il blues autentico si suona nei quartieri della periferia nera.
Storicamente i neri erano infatti confinati in zone separate da quelle dei bianchi dai binari della ferrovia e in molte città d’America queste linee di divisione esistono tuttora.
Ed è proprio dall’altra parte dei binari della West Side di Birmingham che si trova il Red Wolf, un locale senza insegne e indicazioni, schiacciato tra officine meccaniche e depositi di vecchie auto. Un’apparenza modesta che tanto contrasta con la qualità della musica che questo juke joint offre.
Ai tempi della segregazione i neri non potevano suonare la loro musica liberamente e lo facevano di nascosto nei juke joint, che erano una sorta di club improvvisati nei garage delle case, nei capanni dei mezzadri, in qualsiasi posto lontano dalle orecchie dei bianchi. Nei juke joint si esibivano artisti diversi che con chitarra e armonica in mano giravano per i vari locali portando e diffondendo il loro stile di blues. Ma se prima questi posti erano troppo numerosi per essere contatti, col tempo come morivano i proprietari anche i juke joint.
Al Red Wolf, ogni mercoledì notte, la band del locale accompagna chiunque voglia suonare o cantare il blues. È un evento che riunisce musicisti della nuova e della vecchia scuola di Birmingham (e dintorni) e giovanissimi desiderosi di mettere alla prova la loro abilità musicale.
Reita James, nota come Ms. Reita, la proprietaria del locale, accoglie tutti con un abbraccio abbondante e larghi sorrisi, perché, mi dice, «Qui nel Sud il contatto fisico è necessario: esprime gentilezza, amicizia e poi al Red Wolf tutti devono sentirsi a proprio agio».
Ms. Reita, 61 anni, che per vivere fa la cuoca, mi racconta che nella sua famiglia la tradizione d’avere un juke joint si tramanda da almeno tre generazioni.
«Mia nonna aveva un juke joint, e così mia madre e mia zia, e tutte le loro amiche. Sono cresciuta ascoltando il blues nei juke joint di Birmingham. Al tempo (anni Cinquanta, ndr), la maggior parte delle donne nere lavorava al servizio dei bianchi. Pulivano le case, cucinavano, badavano ai bambini. La retribuzione era però misera e per pagare le bollette organizzavano serate blues. Lo facevano di nascosto nelle loro case, nelle cantine o nelle cucine, perché era illegale suonare la nostra musica. Mi ricordo le serate della nonna e della mamma (che era una cantante di gospel). Vendevano il whiskey fatto in casa (era ovviamente illegale) e spesso ero io a versarlo nei bicchieri».
Ms. Reita sorride e ricorda l’atmosfera leggera e allegra che regnava in quelle serate. I problemi della segregazione, della vita quotidiana venivano lasciati fuori. La gente si rilassava al ritmo della musica.
«Il blues ci faceva dimenticare le cose brutte. Lo ascoltavi e non volevi sentire parlare di problemi, volevi solo divertirti, perché non sapevi quando avresti avuto un’altra occasione per farlo».
Con questi ricordi in mente, Ms. Reita sognava di aprire a Birmingham un locale dove, come una volta, «gli spiriti si sentissero liberi», un luogo in cui i problemi quotidiani venivano lasciati fuori. Un juke joint, insomma, che somigliasse a quelli dei vecchi tempi.
E così sei anni fa è nato il Red Wolf.
«Il mio sogno s’è realizzato» mi dice cantando, perché Ms. Reita ha una bella voce e a tante domande risponde condendole di blues.
«Il Red Wolf è un juke joint non un club musicale» mi spiega, «La differenza tra un juke joint e un club è enorme: un club ha delle regole di etichetta e i clienti si adeguano a queste regole. In un juke joint è diverso: entri e sei te stesso. Nessuno ti giudica se ti levi le scarpe per ballare, o per come balli, o per come sei vestito. In un juke joint ci si rilassa è come essere a casa, in famiglia perché attorno a un juke joint si crea una vera e propria comunità di persone».
E al Red Wolf basta varcare la soglia per sembrare d’esser catapultati in un’altra epoca. La TV, accesa a tutto volume in attesa dell’arrivo della band, è sintonizzata su un canale retro che trasmette musica blues e soul degli anni 50, 60 e 70. Non manca il jukebox ben fornito di musica blues. L’arredamento è semplice: tavoli attaccati uno all’altro, coperti da tovaglie colorate e adornati con vasi di fiori finti. Le poche luci sono quelle colorate degli alberi di Natale.
Il pubblico, per la maggior parte afroamericano, è un miscuglio di persone anziane che sfoggiano abiti eleganti, cappelli a falde larghe e scarpe colorate; persone in maglietta e jeans; e giovani con dreadlocks e pettinature afro.
Ma a parte l’apparenza retro (che è causale e non un design studiato), è l’atmosfera a rendere questo posto particolare.
«È un posto autentico. Ha l’energia di un vero juke joint» mi dice Todd Eckstrom, un habitué del locale, che per arrivarci impiega quasi un’ora di autostrada.
«È un’esperienza unica per gli amanti del blues. Ci verrei tutti i mercoledì, se non dovessi svegliarmi presto il giovedì mattina per andare al lavoro».
E come dargli torto, il blues suonato dentro le mura di questo piccolo edificio regala emozioni particolari. Diversi amanti del blues sostengono che le band offrono performance migliori quando suonano al Red Wolf. È forse dovuto ai sorrisi, all’accoglienza calda riservata a chiunque dalle persone di questa comunità (e ovviamente da Ms. Reita), o forse, come mi spiegano diversi musicisti, per il fatto che qui gli artisti sono liberi d’esprimersi.
Robert Harris, il chitarrista della band del Red Wolf, ha lasciato Los Angeles, dove era il producer di artisti R&B come The Whispers e Patti Austin, per tornare a casa, a Bessemer (la cittadina alle porte di Birmingham che ospita il juke joint Gip’s Place).
«Ero stanco del mondo della musica professionale» mi racconta, «Ti porta via tutto quello che c’è di creativo in te. Qualche anno fa tornai a Bessemer per visitare mia madre andai a sentire il blues che si suonava a Birmingham e capii che dovevo tornare, che suonare il blues era quello che volevo fare».
Harris suona in diversi locali della città, ma farlo al Red Wolf è tutt’altra cosa: «Ci sono cose che si fanno per l’anima, altre per denaro. Qui suono per la mia anima, negli altri posti per pagare le bollette».
«In certi locali» mi spiega, «devi suonare in un certo modo per accontentare il pubblico, al Red Wolf sono libero. Suono quello che sento, quello che ho dentro. Faccio uscire il mio blues».
Ms. Reita lascia per la band i $5 di ingresso pagati dai clienti, per sé tiene invece i dollari dei drink (la super hit del locale è il Red Wolf Cocktail, una bomba, a detta di molti, che costa solo pochi dollari).
Willie Chavers, noto come “Bluesboy” Willie, aveva 80 anni. Era considerato una leggenda nel mondo del blues di Birmingham, perché quest’operaio in pensione, che ha dovuto abbandonare la chitarra per via dell’artrosi, era uno dei migliori suonatori d’armonica della zona. Bluesboy Willie, che è morto il 27 aprile di quest’anno, non perdeva mai l’appuntamento del mercoledì al Red Wolf e poco prima di morire anche lui mi disse che qui la musica veniva fuori libera.
«È come ai vecchi tempi. In soli sei anni si è creata una comunità di persone unite dall’amore per il blues, siamo come una famiglia…»
E le serate della famiglia del Red Wolf iniziano con l’arrivo della band (molto spesso in ritardo, perché siamo nel Sud e in più un juke joint!) e Ms. Reita che canta lo slogan del locale: Ain’t no party like the Red Wolf party, ‘cause the Red Wolf party don’t stop… Cross the tracks, back in the back, walk in the door and party like that! (Non c’è festa paragonabile a quella del Red Wolf, perché la festa al Red Wolf non finisce mai. Attraversa i binari, entra e festeggia in questo modo).
Poi la musica la farà da padrona.
Spesso il locale si riempie di musicisti noti nel mondo del blues di Birmingham come il suonatore d’armonica Jock Webb, il chitarrista e cantante Earl “Guitar” Williams, o Sugar Harp, che con armonica e filastrocche blues fa ridere il pubblico. In questo locale si dà però anche spazio agli aspiranti musicisti (che ricevono poi un parere e dei consigli degli anziani) e a chiunque voglia cantare o suonare un pezzo blues.
«Ho visto chiudere molti locali che organizzavano jam session. Spesso perché erano solo i professionisti a suonare e il pubblico rimaneva passivo. Al Red Wolf è diverso. Il pubblico partecipa e nessuno fischia per una nota sbagliata o una stonatura» mi spiega Robert Harris.
Tre anni fa, Wynton Marsalis, famoso trombettista jazz di New Orleans, nonché direttore artistico del Jazz Lincoln Center di New York, ha girato un documentario per la CBS sui juke joint della zona di Birmingham. Il Red Wolf è stato uno di quelli che l’ha colpito di più, perché è un posto «semplice», «umile», ha detto Marsalis in un’intervista alla CBS. Marsalis ha intervistato Ms. Reita e ha suonato la tromba accompagnato dall’armonica di Bluesboy Willie e dalla chitarra di Robert Harris.
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Il pubblico del Red Wolf danzava felice.
Il famoso artista dirà poi che esibirsi in questo locale della West Side di Birmingham era stato come tornare indietro al passato «nel posto dove è tutto cominciato», perché nonostante Marsalis suoni il jazz, le sue radici vengono dal blues.
«Il blues fa bene all’anima. Questo ritmo è inseparabile dall’identità americana, non è un ritmo semplice, ingenuo. Il blues ci dice che cose brutte possono succederci a ogni momento… È come un vaccino. Se ti vuoi liberare di qualcosa, iniettatene un po’, così quando i veri problemi arrivano, sei pronto» commenta Marsalis nel documentario.
Oltre a Marsalis sono tanti gli artisti che hanno chiesto di provare l’esperienza di suonare al Red Wolf.
«Wow, questo posto è incredibile!» ha esclamato la scorsa estate Andy Frasco, il vocalista e leader della band di Los Angeles Andy Frasco & The U.N., durante la pausa sigaretta, dopo aver suonato per più di un’ora.
«Non credevo che posti così esistessero ancora».
Oltre ad Andy Frasco & The U. N. hanno fatto vibrare le mura del locale anche Lightnin’ Malcom, Cedric Burnside, Debbie Davies & Jay Stollman, Johnny Sansone, Matt Hill (nel 2011 ha vinto il Blues Music Award), Diedra the Blues Diva (artista locale, finalista dell’International Blues Challenge di Memphis), Cassie Taylor (la figlia di Otis Taylor), Victor Wainwright (nel 2013 e 2014 al Blues Music Award ha vinto il premio Pinetop Perkins per il miglior pianista), Little G. Weevil (vincitore nel 2013 del Blues Foundation’s International Blues Challenge Solo), Ian Siegal (vincitore nel 2010 del British Blues Award), Josh Garrett, Yvette Cook, Lauren Mitchell Band, JP Soars & the Red Hots, JJ Thames, RB Stone, e tanti, tanti altri.
«Spesso i musicisti mi chiamano o mi mandano un messaggio su Facebook chiedendomi se possono venire a suonare nel locale. Un giorno mi ha chiamato una band dalla Russia e gli ho detto: “Perché no?” Io sono solo contenta. Una signora di Washington mi ha vista in TV e quando il marito le ha chiesto cosa voleva per il suo compleanno, gli ha risposto: “Andare a Birmingham dalla signora del juke joint”» mi dice ridendo Ms. Reita, «È stata qui già due volte».
Ms. Reita è felice d’aver creato una casa per il blues, perché, questa musica è sempre dentro di lei.
«Canto il blues quando mi succede qualcosa di bello, o quando sono triste, o quando qualcosa non va per il verso giusto. Il mio blues può prendere una direzione o l’altra, è un caro amico che mi accompagna da sempre».
Per conoscere il profondo Sud americano e la sua musica, leggi le opere teatrali di Francesca Mereu
Per sentire invece il ritmo di Birmingham, ascolta “The Lost Child”, il programma musicale di Burgin Mathews, scrittore di Birmingham e esperto di musica jazz e blues