Dopo una lunga attesa, nel piazzale della chiesa di Lampedusa, nel tardo pomeriggio di oggi è iniziata finalmente una distribuzione di cibo per le centinaia di migranti che da giorni vagano per le strade del paese: formalmente sarebbero alloggiati nell’hotspot di contrada Imbriacola, ma “alloggiati” vuol dire poco. Ci stazionano, a tratti, ma devono dormire per terra, di giorno sotto il sole, e il cibo distribuito dalla Croce Rossa non è abbastanza per tutti. Qui sul sagrato ci sono ragazzi che dicono di non mangiare da ieri, alcuni dall’altro ieri. Alzano le magliette sudicie che indossavano anche durante la traversata e mostrano le pance vuote. Da mangiare c’è il cous cous, la distribuzione è organizzata dalla chiesa, da Mediterranean Hope, da vari volontari di associazioni. La Croce Rossa, lo Stato, non è assolutamente in grado di fare fronte a questi numeri. E poi ci sono i lampedusani, le signore che buttano la pasta e fanno due etti in più: quando è pronta si affacciano sulla strada, qualcuno allunga le mani e prende un piatto.
Per la maggior parte sono ragazzi giovanissimi, in stragrande maggioranza maschi, intorno ai vent’anni e anche molto meno: vengono da tutti i Paesi dell’Africa subsahariana, si muovono a gruppetti di tre quattro, e sono dappertutto: sulle panchine, davanti ai supermercati, al porto, fanno passare il tempo nella speranza che qualcuno regali loro una bottiglia d’acqua o qualsiasi altra cosa. Nella speranza anche che qualcuno abbia voglia di fare due chiacchiere: c’è chi ha viaggiato due mesi e chi tre anni; tutti appena sbarcati hanno chiamato le famiglie per dire loro che l’incubo era finito. Ripetono l’elenco dei paesi che hanno attraversato: Camerun, Nigeria, Niger Algeria, Libia, Tunisia. Alcuni sono feriti, hanno i piedi piagati: queste migliaia di chilometri le hanno macinate con addosso le infradito. I casi gravi finiscono al poliambulatorio dell’isola, come un bambino curato oggi perché faticava a respirare, non saturava: ma per fortuna non aveva niente, era solo stato schiacciato tra i corpi per troppe ore. Il panico sui barchini ha fatto il resto. Ed eccoli lì i barchini: delle scatole di latta arrugginite, ammassate a decine al porto vecchio, ancora piene delle camere ad aria usate come giubbotti di salvataggio: sembra impossibile farci anche un solo miglio in mare, loro giurano di essere partiti con quelli dalle spiagge della Tunisia, qualche giorno fa.
Tra poco in paese si svolgerà una fiaccolata, il sindaco ha indetto lutto cittadino per la neonata morta ieri e per tutti quelli che non ce l’hanno fatta. Ma loro non ci sono, riempita la pancia se tornano all’hotspot: solo da lì infatti possono sperare di essere caricati su un autobus in direzione del porto, di prendere un traghetto, e di arrivare, finalmente, in Italia.