Approfondimenti

“Uno sgocciolamento quotidiano di anime”

Silvia Maraone è un’operatrice della Ong IPSIA Acli. Ci aveva raccontato alcuni giorni fa la situazione dei nuovi campi profughi sorti in Grecia dopo la chiusura di Idomeni. Le abbiamo chiesto di mandarci il suo diario, non solo dell’ultima missione di 12 giorni, ma dopo cinque viaggi e 15mila chilometri percorsi in dieci mesi lungo la rotta balcanica, dalla Grecia all’Ungheria.

In questa prima puntata, la Grecia e qualche considerazione generale sull’inadeguatezza della risposta europea al dramma dei profughi.

Una questione di sopravvivenza

La sensazione finale che mi resta dopo 12 giorni lungo l’intera rotta balcanica (dalla punta meridionale della Grecia fino ad arrivare sin dentro i confini ungheresi), e dopo averla già percorsa quattro volte negli ultimi otto mesi, è quella che in Europa si stia provvedendo semplicemente a mantenere delle persone, cercando di relegare il problema nelle regioni più marginali dei nostri confini.

I migranti sono un problema, ma va gestito sottovoce, in estrema sintesi. Sembra che le indicazioni condivise tra Grecia, Macedonia, Serbia e Ungheria siano: mantenere un profilo basso, tollerare il traffico di uomini che attraversa la spina dorsale dei Balcani, non esagerare con la violenza e fare in modo che silenziosamente la rotta balcanica continui il suo sgocciolamento quotidiano di anime, direzionate verso altri Paesi dove ricostruirsi una vita.

Nel corso di un anno i numeri sono radicalmente cambiati, ma nella Ue stiamo tuttora affrontando la questione migratoria come un tamponamento all’emergenza, cercando di stoppare un’emorragia con un cerotto senza pensare a come fermare la causa del sanguinamento o quantomeno migliorare le condizioni generali di salute del malato.

Ci si limita a dare da mangiare (poco e male) e dormire (in tenda sui materassini) alle persone che arrivano da noi in cerca di protezione e aiuto, garantendone esclusivamente la sopravvivenza fisica, senza interessarsi alle problematiche psico-sociali e senza che ci sia un reale interessamento al destino individuale di questi esseri umani.

È inevitabile chiedersi che cosa raccoglieremo, come civiltà europea, se il nostro tentativo di integrazione e accoglienza verso chi è nato in un Paese diverso dal nostro si limita a sbarrare le porte, rinchiudere nei campi e mantenere in vita persone in fuga, calpestandone i diritti umani.

Dare i numeri

Nell’estate del 2015 la cancelliera tedesca Angela Merkel ha di fatto sospeso l’accordo di Dublino (secondo il quale è possibile presentare una sola domanda di asilo in Ue presentandola nello Stato in cui il richiedente ha fatto l’ingresso) aprendo le porte della Germania a tutti i richiedenti asilo provenienti dalla Siria e invitando “l’Europa a dare una prova comune di solidarietà e rispetto delle regole”. Questo viene identificato come il principale dei pull-factor dell’aumento del flusso dei migranti lungo la Balkan Route.

Il risultato è che quasi un milione di persone tra l’estate 2015 e il marzo 2016 sono passate dalla Turchia alla Grecia per riversarsi verso Nord, quando la rotta era aperta e funzionante in modo coordinato attraverso il sistema degli hot spot di entrata e uscita. Il numero degli smugglers (trafficanti di uomini) era nettamente inferiore e i trasporti da un Paese all’altro permettevano di percorrere l’intero tragitto in tre giorni e spendendo molti meno soldi rispetto ai tremila euro che oggi vengono chiesti a persona per arrivare dalla Grecia in Ungheria, e senza la certezza di farcela.

Dal 20 marzo 2016, con la chiusura della rotta a seguito del fragile e discusso trattato tra Ue e Turchia, i migranti intrappolati in Grecia sono 57.115 ospitati in 55 campi (fonte Unhcr), la maggioranza dei quali dislocati nei campi ufficiali gestiti dal governo greco attraverso il controllo dei militari.

Altre tremila persone circa sono in transito o bloccate negli altri Paesi della rotta: cercano di attraversare i confini e raggiungere l’Ungheria dove faranno domanda di asilo per proseguire poi verso altre destinazioni o – viste le misure restrittive sempre più forti messe in atto dal governo nazionalista magiaro guidato da Orban – da pochi giorni si muovono dalla Serbia in direzione della Croazia.

In un certo senso in questo scenario geografico è la Serbia che sta assolvendo il ruolo più delicato: sta assorbendo e gestendo il flusso di persone dal Sud (si stima circa 200 migranti al giorno) che puntano al Nord.

Il dato interessante è che il numero di persone intrappolate lungo la rotta sostanzialmente non cambia, da luglio dopo il tentativo di colpo di stato in Turchia sono aumentati gli sbarchi sulle isole e circa 200 persone al giorno sui gommoni raggiungo Lesbo e Chios, generando sovraffollamento nelle strutture già piene. Lo stesso numero di persone che si calcola escano ogni giorno dalla Serbia.

bambini tende

Grecia

L’accordo del 18 marzo tra Ue e Turchia segue una politica sperimentale di contenimento in Stati terzi degli inevitabili flussi migratori che negli anni a venire interesseranno sempre di più gli stati “ricchi”. In sintesi estrema prevede che a fronte di aiuti economici pari a 6 miliardi di euro, liberalizzazione dei visti per i cittadini turchi e ingresso rapido in Unione, la Turchia faccia da cane da guardia del confine europeo e tenga all’interno del suo territorio due milioni di profughi.

E’ da quella data che la rotta balcanica si è ufficialmente chiusa, anche se di fatto era già da metà febbraio con l’introduzione dei limiti di ingresso in Austria (80 ingressi giornalieri per chi avrebbe fatto domanda di asilo lì e il transito sino a 3.200 persone verso la Germania) che i numeri di passaggio – che in alcuni giorni sfioravano i diecimila – erano drasticamente calati.

Alla decisione austriaca è seguita una conferenza a cui hanno partecipato Croazia, Bulgaria, Albania, Bosnia, Kosovo, Macedonia, Montenegro e Serbia, ma non la Grecia, che ha generato nei Paesi dei Balcani la chiusura delle frontiere per evitare di rimanere con i profughi bloccati all’interno dei propri confini e ha visto inasprire i criteri di ammissione allo status di rifugiato, accogliendo sostanzialmente solamente le domande di siriani e iracheni e escludendo gli afgani intesi solo come migranti economici.

E’ da allora che sono rimaste intrappolate in un limbo dal nome Grecia quasi 60mila persone, per lo più provenienti da Siria (48%), Afghanistan (25%) e Iraq (15%).

Queste persone si dividono ulteriormente in sottocategorie. Chi è arrivato prima del 20 marzo era stato registrato sulle isole e con un provvedimento speciale poteva muoversi sul territorio greco (motivo per cui si è saturato il confine con la Macedonia con 14mila persone accampate nel campo informale di Idomeni, chiuso poi a fine Maggio).

Dal momento della prima registrazione, tre sono le opzioni cui poter accedere: fare richiesta per ricongiungimento familiare (domanda che viene accolta principalmente per i minori non accompagnati) o richiesta di ricollocamento in un altro paese dell’Ue (possibilità destinata a siriani e iracheni, si può esprimere una preferenza per una destinazione adducendo la motivazione, ma non è detto che venga accolta perché i numeri delle richieste vengono gestiti in base alle quote di accoglienza dei singoli paesi); tornare nel proprio Paese di origine (in questo caso viene garantito il rimpatrio e un supporto economico, i così detti rimpatri volontari sono mirati sopratutto alle popolazioni che molto difficilmente vedranno accolta la domanda di asilo come afghani, pakistani e altre nazionalità).

Chi è arrivato dopo il 20 marzo (e nella maggior parte dei casi ora si trova bloccato sulle isole) può fare domanda di asilo e dunque guadagnare la possibilità di non essere espulso immediatamente.

A loro volta queste persone vengono divise tra i casi vulnerabili (minori non accompagnati, disabili, anziani, madri single con figli) che hanno una sorta di canale preferenziale affinchè le loro domande vengano analizzate in tempi rapidi, guadagnando dunque il diritto alla terraferma.

Per gli altri, là dove la domanda di asilo non dovesse essere accolta, è previsto il rimpatrio in Turchia, come da accordo di marzo. Per ogni rimpatriato, la Turchia manderà in Grecia una persona di nazionalità siriana, con precedenza per i sopra citati casi vulnerabili.

Per poter svolgere queste pratiche, in primis era stata messa in atto una pre registrazione via Skype. Telefonando all’Asylum Service (dipartimento del ministero dell’interno greco che si occupa di asilo) i rifugiati avrebbero ottenuto un appuntamento per la registrazione a cui presentarsi per inoltrare la propria domanda di asilo, relocation o ricongiungimento. E’ facile immaginare cosa volesse dire per le persone accampate senza corrente e senza internet cercare di prendere la linea con gli uffici governativi, che osservavano inoltre orari ridotti.

Vista l’impossibilità per molti di poter ottenere un appuntamento via Skype, il governo ha colto l’occasione di chiudere i campi informali e spingere le persone ad accedere ai campi ufficiali, dove è stata messa in atto la pre registrazione in situ o organizzando trasporti via bus verso gli uffici competenti sui territori.

La procedura di pre registrazione rappresenta però solamente il primo passo nella procedura di riconoscimento della protezione internazionale (così come della relocation o del ricongiungimento), necessario per poter ottenere via SMS un successivo appuntamento con l’Asylum service, ed evitare nel frattempo il rischio di essere rimpatriati.

A fine luglio sono ufficialmente terminate le pre registrazioni e sono cominciati i colloqui per la registrazione (formalizzazione della domanda, fotosegnalamento e breve intervista). In base al tipo di richiesta presentata durante la registrazione (ricongiungimento, asilo, relocation) cambiano i tempi di attesa che vengono stimati ottimisticamente dai greci in 2-3 mesi per la relocation, sino a 6 mesi per l’asilo. De facto viste le tempistiche in essere, parlare di un minimo di 12 mesi sembra la prospettiva più rosea, per i richiedenti asilo.

Le persone che hanno fatto la pre-registration hanno libertà di movimento, possono accedere ai servizi come sanità e scuola, ma la prospettive che questi bambini (che prappresentano quasi il 40% della popolazione migrante) possano realmente inserirsi nelle scuole in autunno, come ha dichiarato il primo ministro greco Tsipras, sembra invece molto difficile.

Nel frattempo, come vivono queste 60mila persone? La risposta è semplice: sopravvivono.

Il grosso dei campi ufficiali sono stati allestiti all’interno di fabbriche abbandonate nelle periferie industriali delle città, nella maggior parte dei casi sono state montate all’interno di capannoni in alluminio tende da 8 posti una di fianco all’altra, attrezzate solamente con brandine o materassi appoggiati sui pallets e coperte grigie militari. Le temperature estive in agosto hanno sfiorato quasi i 40 gradi, rendendo impossibile la permanenza in queste strutture. In alcuni casi, come a Nea Kavala, le tende sono state montate direttamente sul terreno, in appezzamenti agricoli e non c’è alcun tipo di protezione da pioggia o sole. In altri casi ancora sono invece state montate casette prefabbricate, ma lontane decine di chilometri dal primo centro abitato. Nella stragrande maggioranza dei casi i servizi igienici sono costituiti da bagni chimici e poche docce senza acqua calda.

Le giornate sono scandite dal ritmo monotono della distribuzione dei pasti, cibo insapore – se non cattivo – cucinato per migliaia di persone e consegnato in vaschette di plastica. Cibo che viene buttato dai profughi, che si lamentano e che vorrebbero poter cucinare per sé stessi, ma che non possono farlo per motivi di sicurezza. In realtà nei campi ciò che è probito avviene comunque. Le persone più intraprendenti si muovono e vanno a piedi o con i taxi anche per chilometri, per raggiungere paesi e cittadine nei dintorni, dove comprano cibo e suppellettili che in larga parte rivendono nei campi, dove dunque si trovano anche oggetti proibiti coltelli e fornelli a gas. I militari di guardia lasciano fare, per evitare problemi. Gestire mille e più persone nel modo sbagliato vorrebbe dire trovarsi di fronte a folle inferocite, stanche di questa situazione di incertezza e degrado.

Quando sono state spostate le persone all’interno dei campi non sono stati rispettati criteri che tengano a distanza le diverse nazionalità, pertanto si sono già verificati scontri e pestaggi tra gruppi differenti, ma si vanno verificando con sempre maggiore frequenza anche episodi di violenza nei confronti delle donne, che di notte non vanno in bagno se non sono accompagnate, per la paura di essere molestate. Il tutto nel silenzio delle istituzioni greche.

I volontari e le organizzazioni sono mal tollerati e in grossa parte viene negato l’accesso ai campi, specialmente per i singoli e i gruppi non appartenenti a grandi organizzazioni, il che rende la vita dei profughi ancor più difficile e monotona, senza nemmeno la possibiità di poter fruire di attività di animazione o corsi di lingua e in linea generale di potersi relazionare con persone diverse da quelle con le quali convivono tutti i giorni da mesi.

Non c’è dunque da stupirsi se la maggior parte dei rifugiati che ha ancora dei mezzi economici per farlo sta semplicemente cercando di guadagnare tempo in Grecia per capire il modo migliore per lasciare il Paese, il che equivale ad affidarsi ai trafficanti di uomini e attraversare i confini illegalmente, per raggiungere l’Ungheria. Dall’altra parte è evidente che chi resterà all’interno dei campi sarà la popolazione economicamente e culturalmente più svantaggiata.

-Continua

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    Silvia Maraone
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