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Prima di Rosa Parks: il no alla segregazione

Nel ’53 Eisenhower sceglie come nuovo presidente della Corte Suprema Earl Warren perché Warren è un pezzo grosso del partito repubblicano, è un governatore con un consenso altissimo all’interno del partito, e ha anche – cosa che non guasta per il ruolo che deve ricoprire – una esperienza legale. Warren è un politico consumato, un brillante tattico, e un uomo abituato in politica a dominare: certo, nel ’48 come candidato alla vicepresidenza ha perso anche lui, dietro al candidato alla presidenza Dewey, nel confronto con Truman, vinto a sorpresa da quest’ultimo, ma nella sua carriera in pratica è stato sconfitto soltanto al massimo livello della politica americana.

Per non compromettere la propria nomina Warren evita di scoprirsi sul caso Brown v. Board of Education. Poi una volta eletto il suo obiettivo non è vincere: è stravincere, come sua consuetudine nelle elezioni da governatore e nelle dinamiche interne del partito repubblicano. Dunque vuole che la sentenza della Corte Suprema sulla questione della segregazione nelle scuole passi non a maggioranza, per quanto schiacciante, cinque su sei, ma all’unanimità. Per riuscirci Warren insiste intanto con i membri della Corte sull’unanimità come fattore indispensabile per neutralizzare le resistenze del Sud degli States.

Ma sempre per ottenere l’unanimità utilizza altri argomenti forti. Convince i giudici che solo superando la giurisprudenza legata alla sentenza Plessy v. Ferguson del 1896 che ha sancito il principio “separati ma uguali”, solo così la Corte Suprema potrà mantenere la propria legittimazione, il proprio prestigio come istituzione votata alla libertà. E soprattutto mette i giudici con le spalle al muro, persuadendoli che si può logicamente sostenere la legittimità della segregazione solo se si sostiene senza infingimenti l’inferiorità dei neri: e naturalmente nessuno dei giudici se la sente di assumersi in questi termini una opinione del genere.

Nel maggio del 1954 la Corte suprema, all’unanimità, dichiara l’inapplicabilità del principio “separati ma uguali” all’ambito dell’istruzione e afferma l’incostituzionalità della segregazione nelle scuole. La battaglia per il superamento della segregazione razziale nel settore dell’educazione non è affatto vinta con questa sentenza: sarà una battaglia durissima, lunghissima, senza esclusione di colpi da parte di chi resiste alla de-segregazione. Ma questo è uno di quei casi in cui l’affermazione di nuovi principi, di una nuova giurisprudenza ma anche di nuove teorie, è quasi più importante degli stessi immediati effetti pratici che la sentenza produce.

Chi stila le motivazioni della sentenza è Warren in persona. Warren basa le motivazioni su un’ampia ricognizione storica: ricorda che all’epoca della sentenza Plessy v. Ferguson l’istruzione pubblica quasi non esisteva, mentre del frattempo è diventata una delle funzioni decisive dello Stato; dunque – ragiona Warren – se lo Stato ha deciso di darle tanta importanza deve assicurarla a tutti in condizioni di parità: e pone la domanda se la segregazione nell’istruzione può consentire queste condizioni di parità, domanda a cui dà una risposta negativa.

Nelle motivazioni della sentenza della Corte Suprema vergate da Earl Warren riecheggia proprio l’impostazione della causa intentata da Oliver Brown e dagli altri ricorrenti di Topeka, che non contestavano l’esistenza di condizioni non egualitarie fra bianchi e neri nell’educazione segregata, ma sostenevano che anche a parità di condizioni era la segregazione in quanto tale ad introdurre un elemento di disuguaglianza, e a produrre degli affetti negativi sui bambini neri. Le motivazioni si appoggiano inoltre largamente sulle considerazioni con cui Julius Waties Waring, trovatosi in minoranza nella sentenza della corte di primo grado del South Carolina su un altro ricorso poi sottoposto assieme a quello di Topeka alla Corte Suprema, aveva voluto formalizzare il proprio dissenso (vedi puntata precedente).

Warren scrive infatti che “la politica di segregazione delle razze tende generalmente a denotare l’inferiorità dei neri. Questa sensazione d’inferiorità colpisce la motivazione dei bambini ad apprendere. (la segregazione) priva (i neri) dei vantaggi che otterrebbero da un sistema scolastico razzialmente integrato”. Dunque “sistemi d’istruzione separati sono per essenza disuguali. In ragione della segregazione qui contestata, (i ricorrenti) sono stati privati dell’eguale protezione della legge”.

La sentenza della Corte Suprema è fra l’altro la grande rivalsa di Waring, straordinaria figura di giudice federale, alla Corte di Charleston. Liberale conseguente, impressionato dal livello del giovane avvocato afroamericano Thurgood Marshall, capo dell’ufficio di difesa legale della Naacp (sarà poi proprio Marshall a sostenere la causa Brown v. Board of Education davanti alla Corte Suprema), nel ’43 Waring si pronuncia per la parità di trattamento economico degli insegnanti neri del South Carolina rispetto ai loro colleghi bianchi.

Diventato amico personale del leader locale della Naacp Arthur J. Clement, nel ’46 Waring rimane disgustato dalla sbrigativa assoluzione di un gruppo di poliziotti che hanno picchiato un reduce afroamericano, e reagisce desegregando udienze e giurie. Intorno gli si fa il vuoto: isolato persino da gran parte dei suoi parenti, Waring è oggetto di intimidazioni da parte del Ku Klux Klan. Ma non molla: è lo stesso Waring a suggerire a Marshall di impostare la questione della desegregazione nelle scuole non sul piano della denuncia dell’ineguaglianza di trattamento ma della segregazione in sé.

All’epoca, in un discorso ad Harlem, Waring parla della segregazione come di un cancro che non può essere curato con dei sedativi. Nelle motivazioni della Corte Suprema Warren si rifà alle argomentazioni di Waring guardandosi però bene dal citarlo, per evitare l’ostilità degli Stati del Sud dove Waring è odiatissimo: ma la sentenza è la vittoria del vecchio giudice.

La considerazione di Warren che la segregazione mina la motivazione dei bambini ad apprendere non è casuale. Ad affermare il principio per cui la segregazione nell’istruzione è di per sé un elemento che mette i bambini neri in una condizione di diseguaglianza, la Corte suprema arriva per l’abilità e l’intelligenza di Warren, ma anche perché studia. La Corte suprema affronta infatti la problematica avvalendosi di vari contributi. Uno è La questione razziale, testo prodotto nel ’50 dall’Unesco, redatto da eminenti psicologi, biologi, antropologi e etnologi, che bollano le teorie razziali come pseudoscienza e ricordano come questa pseudoscienza sia stata utilizzata per giustificare lo sterminio degli ebrei.

Un altro è Un dilemma americano. Il problema nero e la democrazia moderna, ponderoso e fondamentale studio, pubblicato nel ’44, finanziato dalla Carnegie Foundation e coordinato dal grande economista svedese Gunnar Myrdal, scelto perché non essendo statunitense avrebbe potuto offrire garanzie di maggiore obiettività: lo studio descriveva dettagliatamente gli ostacoli che impediscono agli afroamericani di partecipare pienamente alla democrazia statunitense. Inoltre la Corte fa tesoro di uno studio di Kenneth B. Clark e Mamie Phipps Clark basato su test effettuati su bambini neri con l’impiego di bambole bianche e nere: ai bambini viene fra l’altro richiesto di definire “buone” o “cattive” le bambole, e spesso i bambini neri definiscono buone le bambole bianche e cattive le bambole nere: nel risultato di questo esperimento la Corte Suprema vede la conferma dell’interiorizzazione da parte dei bambini neri della discriminazione di cui sono oggetto anche attraverso la segregazione razziale nelle scuole. Quindi la sentenza della Corte suprema è il prodotto e nello stesso tempo la spinta ad un salto nella trattazione del problema razziale.

La storica sentenza comunque non porta gli afroamericani a modificare il loro atteggiamento nei confronti di Eisenhower, che nel ’54 è rispecchiato non solo da Eisenhower Blues di J.B. Lenoir (vedi puntata precedente). Four Years of Torment (“Quattro anni di tormento”) è un titolo con cui Memphis Slim non lascia spazio a dubbi sulla sua opinione sulla presidenza Eisenhower: rimasto senza soldi, il protagonista della canzone è costretto ad ipotecare la casa, e anche lui spera nelle presidenziali del ’56.

Della prospettiva della desegregazione delle scuole, Eisenhower ha dovuto farsi una ragione, ma sarà comunque turbato dalla sentenza della Corte Suprema, probabilmente anche per la sua inattesa nettezza e per le avanzate argomentazioni da cui è corredata. Sul piano personale, Eisenhower si porterà sempre dietro la sua cultura di uomo del sud, rivelata per esempio dal suo disagio nei rapporti con neri che non fossero in una posizione subordinata.

Rispetto alla desegregazione delle forze armate, l’abbattimento delle barriere razziali nel settore dell’istruzione fu ben più tormentato e lungo.

Nel ’57 il governatore dell’Arkansas, il (si noti) democratico Orval Faubus, sfidando la sentenza della Corte Suprema impiega la guardia nazionale per impedire a nove alunni neri di entrare alla Central High School di Little. Popolarissimo in tutto il mondo, Louis Armstrong, “arruolato” l’anno precedente dal Dipartimento di Stato come “Jazz Ambassador” per missioni all’estero destinate a propagandare l’immagine degli Usa e a rispondere all’accusa del blocco comunista che gli Stati Uniti predicano la democrazia e praticano il razzismo, annuncia che non partirà, come previsto, per un tour in Urss: non uso a parlare di politica, in quell’occasione sorprende tutti rilasciando un’intervista di fuoco: “Per come stanno trattando la mia gente nel Sud il governo può andare all’inferno”, dichiara Armstrong, che accusa Eisenhower di essere “doppio” e di non avere “fegato” (ma i termini che usa parlando al giornalista sono molto meno eufemistici).

L’intervista è una bomba: sei giorni dopo Eisenhower è costretto a risolvere la situazione inviando in Arkansas mille paracadutisti della gloriosa 101a divisione aviotrasportata e mettendo sotto controllo federale la guardia nazionale dell’Arkansas.

Della frustrazione degli afroamericani di fronte alla lentezza dei cambiamenti nell’era Eisenhower si fa interprete sempre nel ’54 il bluesman J.B. Hutto con Things are so slow.

  • Autore articolo
    Marcello Lorrai
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    “Ho detto R1PUD1A” è un podcast sul riarmo e la propaganda di guerra in Europa di Giuseppe Mazza e Claudio Jampaglia, realizzato negli studi di Radio Popolare per EMERGENCY. Nei 5 episodi vi racconteremo le ragioni della campagna R1PUD1A di EMERGENCY www.ripudia.it attraverso un’analisi dei meccanismi per cui in questi anni siamo arrivati al “non c’è alternativa” al riarmo, dei protagonisti, delle campagne e dei linguaggi, con molti ricorsi storici, qualche sguardo alle alternative e con la partecipazione di alcuni dei protagonisti dell’associazione che da 30 anni cerca di curare e prevenire le ferite provocate dai conflitti armati. Secondo episodio: La guerra non è popolare. L’Europa si riarma con 800 miliardi. In questi anni aveva già raddoppiato la propria quota di spese militarti, soprattutto comprando dagli Stati Uniti. Lo faremo di più, visto che Trump disinvestirà dalla Nato e dall’Europa. E’ la “fine delle illusioni”, come dice Von der Leyen, di essere garantiti dalla pace, perché d’ora in poi bisognerà usare la forza. E intanto si educa la popolazione con manuali che dicono: “In caso di guerra…”. La propaganda è altissima perché non c’è nulla di più antipopolare e antidemocratico della guerra e la militarizzazione d’Europa è tutta sulle spalle dei suoi cittadini. Con Michele Paschetto di EMERGENCY vi racconteremo come in Afghanistan in più di venti anni di guerre le cure abbiamo svolto un ruolo straordinario di mediatore. Partecipa alla campagna R1PUD1A su www.ripudia.it

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    Ho detto R1PUD1A di Claudio Jampaglia e Giuseppe Mazza per EMERGENCY “Ho detto R1PUD1A” è un podcast sul riarmo e la propaganda di guerra in Europa di Giuseppe Mazza e Claudio Jampaglia, realizzato negli studi di Radio Popolare per EMERGENCY. Nei 5 episodi vi racconteremo le ragioni della campagna R1PUD1A di EMERGENCY www.ripudia.it attraverso un’analisi dei meccanismi per cui in questi anni siamo arrivati al “non c’è alternativa” al riarmo, dei protagonisti, delle campagne e dei linguaggi, con molti ricorsi storici, qualche sguardo alle alternative e con la partecipazione di alcuni dei protagonisti dell’associazione che da 30 anni cerca di curare e prevenire le ferite provocate dai conflitti armati. Primo episodio: Le parole sono importanti. In questa prima puntata di “Ho detto R1PUD1A” Giuseppe Mazza e Claudio Jampaglia spiegano cosa significa la parola “ripudia” nella Costituzione italiana e perché è stata scelta per rappresentare il “mai più” alla guerra del popolo italiano dopo la Liberazione. Non siamo i soli ad avere fissato questo principio nelle nostre leggi. La guerra però sta tornando una prospettiva concreta, almeno secondo la maggior parte dei governi, che si riarmano, Italia compresa. Con Rossella Miccio, presidente di EMERGENCY, vi racconteremo poi l’esempio del Sudan, il Paese dove la guerra ha già causato in questi due anni oltre tre milioni di profughi. Partecipa alla campagna R1PUD1A su www.ripudia.it

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    Una trasmissione settimanale  a cura di Anaïs Poirot-Gorse con in regia Nicola Mogno. Una trasmissione nata su Shareradio, webradio metropolitana milanese che cerca di ridare un spazio di parola a tutti i ragazzi dei centri di aggregazione giovanili di Milano con cui svolgiamo regolarmente laboratori radiofonici.

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    C'è Di Buono: Max Casacci racconta Eartphonia III: Through the grapevine

    Anche in questa puntata parliamo di qualcosa che ha a che fare con la cultura enogastronomica, ma anche, molto, con la musica. Per la prima volta il caro Max Casacci (già colonna dei Subsonica) è stato ospite di un nostro programma non prettamente musicale, per raccontare il terzo episodio del suo progetto "Eartphonia", che lo ha portato in Franciacorta per "Through the grapevine", realizzato con i suoni del vino; suoni e rumori catturati nelle cantine dell'azienda vitivinicola Bersi Serlini Franciacorta. A cura di Niccolò Vecchia

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