Siamo a New York, nel 1987. C’è già Donald Trump – ricordate? – anche se non sta alla Casa Bianca ma in cima a un grattacielo dorato sulla Fifth Avenue. E l’immaginario che incarna, la ricchezza arrogante e ostentata, un successo che corrisponde al lusso senza freni, sono il Sogno americano degli anni 80, quello cui aspirano tutti, poveri o ricchi, fatto di rampantismo yuppies e consumismo sfrenato, e perfetta aderenza alle rassicuranti regole del conformismo borghese.
Nel 1987 c’è anche un’altra New York, però, ed è quella che racconta Pose, la nuova serie creata da Ryan Murphy e che negli Stati Uniti ha debuttato all’inizio di giugno, il mese dell’orgoglio LGBTQ: è la Manhattan queer, che scorre parallela alle strade dell’edonismo mainstream, esiste nei sotterranei dei grattacieli o lungo i moli dell’Hudson, esplode nei locali semi-clandestini dove si organizzano i Ball, cioè gioiose sfilate in cui ci si sfida a essere il più possibile regali, alteri e favolosi, nelle discoteche e nelle strade dove si può immaginare il futuro inventando nuovi stili di danza, come il voguing (che sarà poi portato alla notorietà da Madonna).
Una comunità composta in gran parte di giovanissimi ragazzi cacciati di casa dai genitori perché omosessuali, di sex worker, senzatetto e piccoli spacciatori di droga, di persone transgender che il costo di «essere autentiche» lo pagano, altissimo, in ogni istante quotidiano; una comunità in cui ognuno si sceglie la propria famiglia, e con essa prova ad agguantare una felicità luminosa, costantemente negata da tutto e da tutti, dalle discriminazioni costanti alla tragica epidemia HIV.
Pose è, a oggi, la serie con il maggior numero di attori trans della storia della tv: Murphy e i suoi collaboratori hanno proceduto a un attento processo di casting, decisi a offrire i ruoli di personaggi transgender solo a interpreti transgender, e scovando così attrici rivelazione come la bellissima ex modella Indya Moore o l’energica MJ Rodriguez. C’è anche qualche nome più noto, nel cast (come James Van Der Beek, che vent’anni fa fu Dawson in Dawson’s Creek), ma la maggior parte dell’azione, rutilante e colorata, che a tratti sfiora i toni della favola ma è sempre di una sincerità commovente, è affidata a un gruppo entusiasta di facce nuove. Che mette in scena, nel dettaglio e con empatia, un preciso periodo storico e un universo affascinante a molti sconosciuto, di straordinaria e contagiosa vitalità.
«Ognuno ha bisogno di sentirsi superiore a qualcun altro, ma è una linea che finisce con noi» si sente dire la protagonista Blanca da un’amica, che con “noi” intende “donne transgender di colore”. «Perché mai t’infili sempre nelle battaglie che non puoi vincere?» «Perché sono quelle per cui vale la pena combattere», è la risposta, retorica ma efficace, di Blanca. E a giudicare da chi oggi s’è trasferito dalla sua torre in Fifth Avenue alla Casa Bianca (o da chi s’è accaparrato, qui da noi, il ministero della famiglia) è una lotta ancora lunga. Ma di quelle per cui vale la pena combattere sempre, riuscendo pure nel frattempo a essere se stessi: felice Pride a tutti!