A diffondere le immagini è stato il Consiglio Municipale di Sabratha. Gino Pollicadro e Filippo Calcagno sono sorridenti, con il viso e la barba curati. Nulla a che vedere con le due figure sconvolte apparse in video poche ore dopo il rilascio. Ricevono una targa commemorativa da quello che probabilmente è il sindaco della città libica.
Nella giornata di ieri, domenica 6 marzo, atterranno a Fiumicino dove ad accoglierli trovano il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni. Il loro primo dovere da uomini liberi è sedersi di fronte al pm Sergio Colaiocco, titolare dell’inchiesta, per una deposizione di sette ore. Dalle parole dei due sopravvissuti emerge una prima verità: il gruppo di carcerieri non era collegato all’Isis, non ha mai compiuto esecuzioni. I tecnici della Bonatti erano denaro sonante per loro, non infedeli da combattere.
Pollicadro e Calcagno sono sempre stati con i due colleghi Salvatore Failla e Fausto Piano. Costretti a restare al buio, in due abitazioni diverse di Sabratha. Incappucciati, faticavano a mantenere la cognizione del tempo. Sono stati picchiati più volte dai loro carcerieri e lasciati senza cibo. Il 2 marzo Pollicadro e Calcagno devono salutare i due colleghi Failla e Piano: il commando di criminali ha deciso un terzo trasferimento e divide “il bottino” forse per motivi di sicurezza. Failla e Piano sono meno fortunati dei due compagni di disavventura. Una volta capito di essere stati lasciati soli il 4 marzo, dopo non aver mangiato per 24 ore, Pollicadro e Calcagno hanno sfondato la porta della loro casa-prigione e sono usciti, per poi essere consegnati dalla popolazione locale alle milizie governative che controllano la città.
Il primo biglietto pubblicato dai due ex ostaggi con la data 5 marzo invece che 4 si spiega con il fatto che i due si erano dimenticati che il 2016 è un anno bisestile. Nulla di più. Nei sette mesi e mezzo di agonia, cominciati il 20 luglio, al rientro da una vacanza in Tunisia, capire lo scorrere del tempo era difficile, costretti com’erano a restare perennemente al buio. L’incubo comincia dopo il primo check point superato il confine libico: degli uomini armati affiancano la macchina aziendale dell’Eni che stava portando i quattro tecnici a Mellitah. Solo che in quel momento vigeva un totale divieto degli spostamenti via terra a causa dell’altissimo rischio rapimenti.
“Dovremmo capire le responsabilità, perché i quattro uomini poi rapiti sono entrati in Libia quando c’era un esplicito divieto di entrarci da parte nostra”, ha spiegato il premier Matteo Renzi ospite a su Canale 5 da Barbara d’Urso. Il primo ministro, con l’occasione, ha anche chiarito la posizione italiana in merito ad un intervento in Libia: “Oggi non è all’ordine del giorno una missione in Libia, non c’è l’ipotesi di mandare 5mila uomini” sul terreno. E chiude, ancora più esplicito: “Con cinquemila uomini a fare l’invasione della Libia l’Italia con me presidente non ci va”.
L’intervento italiano è ipotizzabile solo sotto l’egida delle Nazioni Unite, dopo aver ottenuto un’esplicita richiesta del governo libico. Scenario, quest’ultimo, che in questo momento appare molto improbabile. Le parole di Renzi si discostano da quanto aveva detto il ministro della Difesa Roberta Pinotti a fine gennaio, quando aveva delineato lo scenario di un intervento internazionale anche senza il consenso del governo libico. Renzi smentisce così anche quanto affermato dall’ambasciatore americano a Roma John Phillips. Il non-interventismo di Renzi tuttavia ha permesso l’invio di agenti di servizi segreti e truppe speciali per monitorare la situazione.