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“Poletti si dimetta, per rispetto ai giovani”

Ministro Poletti si dimetta, solo in questo modo può dimostrare rispetto ai giovani”. La richiesta, sotto forma di una lettera pubblica, arriva da dentro il Pd, da gruppi di giovani democratici di Lombardia, Liguria, Piemonte, Valle d’Aosta e dal responsabile nazionale Diritto e Ambiente, Michele Albiani.

Le adesioni al nostro appello stanno crescendo di ora in ora”, ci dice Davide Skenderi, segretario metropolitano di Milano dei giovani democratici, uno dei firmatari della richiesta di dimissioni del ministro del Lavoro.

Quello che lei (Poletti, ndr) ha detto è per noi come sale su una ferita aperta, brucia da impazzire”, scrivono i giovani del Pd. “Lei forse non capisce cosa significhi veder partire un fratello, una fidanzata, l’amico di una vita, o il compagno di banco delle superiori, per andare a cercare fortuna all’estero. Il tema secondo noi non è chi emigra, ma, piuttosto, per quale motivo lo fa. Quello che ci spaventa non è viaggiare, ma dover partire”. E aggiungono: “Dobbiamo partire perché qui le nostre ambizioni sono quotidianamente frustrate: da contratti precari che il Jobs Act evidentemente non poteva e non potrà eliminare; da ambienti di lavoro conservativi e refrattari al cambiamento e all’innovazione; da corsi di aggiornamento, lauree e master che non sembrano bastare mai; da datori di lavoro che ci vedono come un peso più che come un’opportunità… da mutui sognati e desiderati che non possiamo permetterci perché incompatibili con i nostri contratti di lavoro”.

La lettera dei giovani del Pd si conclude con la richiesta di dimissioni: “Non siamo così ingenui da credere che qualcuno possa, con un colpo di spugna, cancellare questi problemi, ma non siamo nemmeno così stupidi da non capire che meriteremmo non solo ascolto, ma innanzitutto rispetto”. Un rispetto, conclude la lettera, “che sarebbe adeguatamente rappresentato dalla capacità di capire quando è proprio il caso di farsi da parte”.

Parole quelle dei giovani del Pd che arrivano dopo le dichiarazioni fatte ieri dal ministro Poletti: “Se se ne vanno centomila, ce ne sono 60 milioni qui: sarebbe a dire che i centomila bravi e intelligenti se ne sono andati e quelli che sono rimasti qui sono tutti dei ‘pistola’. Permettetemi di contestare questa tesi”. Poi il ministro aveva aggiunto: “Conosco gente che è andata via e che è bene che stia dove è andata, perché sicuramente questo Paese non soffrirà a non averli più fra i piedi”.

Davide Skenderi, perché ha, avete firmato questa lettera in cui chiedete le dimissioni di Poletti?

“Perché purtroppo questa non è la prima uscita che il ministro fa e che ci lascia basiti. Già all’indomani del referendum indetto dalla Cgil le dichiarazioni del ministro ci avevano sorpresi. Queste ultime sono ancora più gravi perché ci toccano da vicino, riguardano i giovani.Io ho sentito le sue parole: sono parole raffazzonate e secondo me dimostrano anche una limitata conoscenza della realtà. Aprire una sorta di guerra interna tra i giovani – è meglio o peggio chi se ne va o chi resta – è grave, anche perché i giovani se ne vanno perché non credono – e non riescono – a costruire un futuro restando in questo Paese. Bisogna trattarli con un po’ più di rispetto. Quindi, quello che ci porta a chiedere le dimissioni del ministro sono sia le sue sue ultime dichiarazioni sia le politiche che ha introdotto con il Jobs Act – penso per esempio ai voucher – che non hanno funzionato”.

Quindi imputate a Poletti non solo le sue parole ma anche alcune scelte fatte con il Jobs Act…

“In particolare, per quanto riguarda i giovani, il problema dei voucher è molto delicato, perché provoca delle forzature nel mondo del lavoro. Il No al referendum costituzionale sarebbe stata l’occasione per migliorare le politiche del governo attraverso la scelta di altri ministri. La conferma di Poletti non ci aveva convinto. A maggior ragione dopo quello che ha detto, il fatto che rimanga al suo posto ci lascia senza parole, se non quelle di chiedergli di fare un passo indietro adesso”.

Nel chiedere le dimissioni a Poletti voi scrivete che “solo così può dimostrare ai giovani rispetto”…

“Sì, anche perché non ha perso occasione per dimostrare uno scarso rispetto nei nostri confronti. Avrebbe dovuto pesare molto di più le parole. Non è la prima volta che sbaglia nelle uscite. Questa ci sembra veramente l’ultima spiaggia”.

Però il ministro Poletti dopo le dichiarazioni sui giovani ha chiesto formalmente scusa.

“Non ci basta. Sarebbe meglio che il ministro facesse un passo indietro anche per dare un segnale a seguito del referendum. Noi dobbiamo prendere atto a livello nazionale che il referendum è stato perso, ed è stato perso male, lo ha detto anche Renzi. Quindi sarebbe potuta essere un’occasione per dimostrare di aver colto il segnale che ci ha dato il Paese, e soprattutto i giovani, che all’ 80 per cento hanno votato No. Il tema del mercato del lavoro relativo ai giovani è una questione che andrebbe affrontata in maniera totalmente differente e forse un passo indietro di Poletti potrebbe aiutarci in questo senso. Per questo chiediamo che altri dirigenti nazionali del Pd abbiano il coraggio di chiedere le dimissioni del ministro del Lavoro”.

Avete raccolto firme nel Nord ovest. Come mai solo lì?

“Intanto le adesioni stanno aumentando. Per ora sono limitate al Nord ovest perché la nostra richiesta è partita principalmente da Milano e da Torino e si è allargata per ora alle zone più vicine a noi. In queste ore stiamo ricevendo altre adesioni”.

***

Ecco il testo della lettera aperta:

IL MINISTRO POLETTI SI FACCIA DA PARTE

Al Ministro del Lavoro Giuliano Poletti indirizziamo questa lettera che non avremmo mai voluto scrivere, ma che ormai, di fronte alle sue parole, non possiamo più trattenere.

Le sue recenti dichiarazioni riguardanti una certa categoria di giovani che sarebbe meglio perdere che trovare ci hanno lasciati a dir poco basiti.A nulla sono servite scuse e rettifiche, perché quello che per lei potrà rappresentare un piccolo “inciampo” politico, per la nostra generazione rappresenta invece una dolorosa quotidianità.

Sì perché lei è stata, con quelle affermazioni, l’ennesima persona che ha trattato con leggerezza e superficialità la difficile situazione dell’occupazione giovanile in questo paese.

Quello che lei ha detto è per noi come sale su una ferita aperta, brucia da impazzire.

Lei forse non capisce cosa significhi veder partire un fratello, una fidanzata, l’amico di una vita, o il compagno di banco delle superiori, per andare a cercare fortuna all’estero.

Lei forse non sa che quando questo accade, ciò che rimane a chi resta in Italia è solo un doloroso miscuglio di malinconia, senso di impotenza e rassegnazione. Ci chiediamo, noi che restiamo, cosa non siamo stati capaci di fare per tenere con noi le persone che amiamo, ma è evidente che non sia responsabilità nostra, o almeno non del tutto.

Nell’epoca dei mercati e della competizione globale, sarebbe certamente miope e riduttivo pensare che il fenomeno delle migrazioni economiche sia da considerarsi deprecabile o da arginare, e infatti non è in alcun modo questa la nostra intenzione.

Il tema secondo noi non è chi emigra, ma, piuttosto, PER QUALE MOTIVO LO FA.

Siamo la generazione dell’Erasmus, delle tecnologie che ci fanno parlare da un capo all’altro del mondo in tempo reale, del consumismo che ci rende tutti fin troppo simili, ed è ovvio che non siano nè le distanze nè le diversità di usanze e di panorama a spaventarci.

Viaggiare per noi è una costante, un’abitudine consolidata, un passaggio cardine della nostra crescita.

Partire per alcuni di noi è una scelta, per altri un’opportunità, ma per un numero sempre maggiore di ragazzi è diventata purtroppo una necessità.

Quello che ci spaventa quindi non è viaggiare, ma dover partire.

Dover partire perché qui le nostre ambizioni sono quotidianamente frustrate

da contratti precari che il Jobs Act evidentemente non poteva e non potrà eliminare, da ambienti di lavoro conservativi e refrattari al cambiamento e all’innovazione, da corsi di aggiornamento, lauree e master che sembrano non bastare mai, da datori di lavoro che ci vedono come un peso più che come un’opportunità, da genitori che sono la nostra forza perché ci sostengono ma diventano la nostra trappola quando non riusciamo ad emanciparci dal loro supporto, da mutui sognati e desiderati che non possiamo permetterci perché incompatibili con i nostri contratti di lavoro.

Non siamo così ingenui da credere che qualcuno possa, con un colpo di spugna, cancellare questi problemi, ma non siamo nemmeno così stupidi da non capire che meriteremmo, non solo ascolto, ma innanzitutto rispetto.

Un rispetto che va oltre una serie di scuse formali, di circostanza, di falso imbarazzo.

Un rispetto che chi ha avuto la possibilità, ma senz’altro anche la fortuna, di poter fare ciò che vuole nella vita, dovrebbe essere in grado di accordarci…

Un rispetto che sarebbe adeguatamente rappresentato dalla capacità di capire quando è proprio il caso di farsi da parte.

  • Autore articolo
    Piero Bosio
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    Ho detto R1PUD1A di Claudio Jampaglia e Giuseppe Mazza per EMERGENCY “Ho detto R1PUD1A” è un podcast sul riarmo e la propaganda di guerra in Europa di Giuseppe Mazza e Claudio Jampaglia, realizzato negli studi di Radio Popolare per EMERGENCY. Nei 5 episodi vi racconteremo le ragioni della campagna R1PUD1A di EMERGENCY www.ripudia.it attraverso un’analisi dei meccanismi per cui in questi anni siamo arrivati al “non c’è alternativa” al riarmo, dei protagonisti, delle campagne e dei linguaggi, con molti ricorsi storici, qualche sguardo alle alternative e con la partecipazione di alcuni dei protagonisti dell’associazione che da 30 anni cerca di curare e prevenire le ferite provocate dai conflitti armati. Primo episodio: Le parole sono importanti. In questa prima puntata di “Ho detto R1PUD1A” Giuseppe Mazza e Claudio Jampaglia spiegano cosa significa la parola “ripudia” nella Costituzione italiana e perché è stata scelta per rappresentare il “mai più” alla guerra del popolo italiano dopo la Liberazione. Non siamo i soli ad avere fissato questo principio nelle nostre leggi. La guerra però sta tornando una prospettiva concreta, almeno secondo la maggior parte dei governi, che si riarmano, Italia compresa. Con Rossella Miccio, presidente di EMERGENCY, vi racconteremo poi l’esempio del Sudan, il Paese dove la guerra ha già causato in questi due anni oltre tre milioni di profughi. Partecipa alla campagna R1PUD1A su www.ripudia.it

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