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    Il forziere irlandese

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    L’Irlanda sta pianificando la creazione di un fondo sovrano nel quale far confluire le tasse pagate dalle multinazionali high-tech statunitensi che sono domiciliate nell’isola. Società che fanno utili nei Paesi comunitari ma non versano localmente le tasse sui loro profitti, preferendo invece pagarle nelle loro sedi di comodo irlandesi. Questo per via del regime fiscale di favore, pari al 12,5%, applicato in Irlanda contro una media europea ben più alta, dal 28% della Svezia al 37% dell’Italia. Dublino si trova così al centro di una enorme fuga di capitali che sarebbero dovuti ad altri Stati comunitari. Profitti realizzati in Europa ma che, grazie a trucchi legali, le grandi multinazionali riescono a trasferire fino ai paradisi fiscali, rimbalzando tra l’Irlanda e i Paesi Bassi per poi finire nei Caraibi, e sfuggendo alla tassazione nei Paesi dove quegli stessi profitti sono stati generati. I numeri sono stati forniti dallo stesso governo irlandese, che nel 2022 è stato l’unico in Europa a chiudere il proprio bilancio con un attivo rilevante, un surplus di 8 miliardi di euro equivalente all’1,6% del PIL. A questo risultato hanno contribuito in modo notevole le tasse versate dalle corporation non solo high-tech, ma anche farmaceutiche. Nel complesso si tratta di circa 22 miliardi di euro, pagati da società che solo in minima parte hanno svolto le loro attività in Irlanda. Soldi facili per Dublino, che per avere questo ritorno economico non ha dovuto sostenere spese. Secondo le autorità irlandesi, il fondo sovrano che ora si vorrebbe creare, simile a quello norvegese del petrolio, entro il 2035 arriverà ad accumulare più di 140 miliardi di euro. Una manna per l’Irlanda, che avrebbe un fondo liquido per risolvere eventuali problemi di bilancio, fare investimenti, sovvenzionare il welfare. Una manna a discapito del resto dell’Europa, però. Perché, se quella cifra corrisponde a una tassazione del 12,5%, significa che la somma che le multinazionali avrebbero dovuto versare al fisco dei Paesi in cui operano sarebbe stata due o tre volte superiore. Contro questa erosione della base fiscale generalizzata, qualche Paese ha già fatto ricorso, contestando cifre milionarie che avrebbero dovuto essere versate localmente. Oltre all’aspetto fiscale, la possibilità di far migrare il pagamento delle tasse dove più conviene comporta un’ulteriore stortura, e cioè il consolidamento di posizioni che diventano quasi monopolistiche, violando la libera concorrenza. La capacità di investimento, sviluppo di prodotto e promozione che hanno i gruppi che pagano un terzo (se va bene) di tasse rispetto ai concorrenti è sproporzionata, ed è alla base dell’espansione di un settore industriale che non sottostà alle regole nazionali, bensì a quelle di una globalizzazione deregolamentata. Tutto legale, ma tutto sbagliato. E per i governi nazionali è difficile opporsi, anche perché, nel mondo attuale, queste aziende controllano i flussi dell’informazione: diventerebbero nemiche potenzialmente molto pericolose, in tempi in cui con un tweet si può distruggere un politico o un partito. La buona notizia per l’Irlanda diventa una cattiva notizia per il resto dell’Europa anche perché le proiezioni fatte da Dublino preannunciano la continuità nel tempo di questa versione fiscale del gioco delle tre tavolette. Neanche l’obbligo di alzare la tassazione fino a un minimo del 15%, come deciso dall’OCSE a partire dal 2024, pare poter incrinare questi privilegi. Il meccanismo di scatole cinesi creato dalle società multinazionali per trasferire i profitti verso l’Irlanda e poi verso i Caraibi è lo stesso utilizzato da sempre dalla criminalità organizzata per depositare denaro nei forzieri delle Cayman, delle Bahamas e di altre isolette. La differenza con le multinazionali high-tech è che i riciclatori di soldi sporchi, o derivati dall’evasione fiscale, non ci hanno mai raccontato che avrebbero reso il mondo migliore.

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