- Play
-
Tratto dal podcast
Memos di gio 12/12
Italia | 2019-12-12
La destra italiana ha accuratamente evitato di intervenire pubblicamente per il 50esimo anniversario della strage di Piazza Fontana e i principali leader, da Matteo Salvini a Giorgia Meloni, non hanno trovato neanche due minuti di tempo per ricordare una delle pagine più buie della storia recente dell’Italia.
Ne abbiamo parlato con lo storico e saggista Miguel Gotor, professore di Storia moderna all’università di Torino e autore del libro “L’Italia del Novecento. Dalla sconfitta di Adua alla vittoria di Amazon” uscito pochi giorni fa.
L’intervista di Raffaele Liguori a Memos.
Perché la destra di oggi, nelle sue figure più rappresentative come Matteo Salvini o Giorgia Meloni, non ha parlato in questi giorni di Piazza Fontana?
È brutto dirlo, ma non lo fanno per convenienza e per calcolo politico. Secondo i sondaggi 3 giovani su 4 ancora oggi ritengono che la bomba di Piazza Fontana non sia stata messa dai fascisti di Ordine Nuovo, ma dalle Brigate Rosse. È come se a distanza di cinquant’anni continuasse ancora un’attività di disinformazione e di propaganda che si é depositata nella coscienza profonda del Paese. E allora Salvini o la Meloni – eppure Salvini è di Milano e Piazza Fontana è anzitutto una ferita della città di Milano – potrebbero parlare, ma non parlano perché gli va bene che si continui con questa attività di disinformazione. Bisogna occupare gli spazi, bisogna resistere e informare correttamente come proviamo a fare.
Chi è responsabile di quel vuoto di informazione rappresentato nei dati che ha citato?
C’è sicuramente una responsabilità delle cosiddette agenzie formative, ma anche delle famiglie e dei genitori che potrebbero raccontare ai loro figli cosa è accaduto di tragico nella storia del loro Paese. Ci sono anche conformismo e pigrizia, c’è una sorta di polvere che si è depositata sulla coscienza di tanti e si preferisce o il silenzio o l’adeguarsi a dei cliché. Bisogna insegnare a scuola e lì ci sono tanti insegnanti che fanno il loro dovere in maniera splendida, facendo della formazione anche su eventi come quelli di piazza Fontana. Nella scuola bisogna fare di tutto per incentivare la lettura e il dovere di informarsi, un dovere civico su cui bisogna resistere e insistere.
Vorrei tornare alla destra, quella di 20-25 anni fa a cavallo tra la prima e seconda repubblica. Lì c’è stata un’operazione di revisionismo storico e politico. Angelo Del Boca diceva che è l’uso politico della storia che è stato fatto allora. Si p voluto manipolare la concezione del fascismo nel tentativo di farlo passare un po’ come una forma autoritaria ma bonaria, completamente diverso dal totalitarismo nazista tedesco. Quel tentativo qualche seme l’ha piantato e qualche risultato l’ha anche ottenuto. Oggi invece non viene neanche fatto il tentativo di usare politicamente Piazza Fontana a proprio favore. Che spiegazione ci si può dare?
Oggi non c’è bisogno di farlo, la realtà della comunicazione attribuisce alle Brigate Rosse la strage di Piazza Fontana e a quel punto un politico furbetto e mediocre sta zitto e aspetta che la situazione passi. Per quanto riguarda l’operazione revisionistica – che ha un calcio d’inizio dal punto di vista pubblico in alcune interviste che Giuliano Ferrara fece nel 1986 sul fascismo a Renzo De Felice – fu possibile in modo continuo perché la destra a trazione berlusconiana deteneva gran parte dei mezzi di produzione di massa relativi alla comunicazione. Non solo televisioni, ma anche i giornali. E questo ha permesso loro di esercitare un’egemonia culturale che era stata già costruita nel corso degli anni ottanta. Tornando invece a quello che diceva sulla visione bonaria del fascismo, quella secondo la quale l’unico errore di Mussolini fu quello di fare un’alleanza con Hitler, è bene ricordare che questo lavorio cominciò da subito. Cominciò quando il corpo di Mussolini era ancora caldo a Piazzale Loreto. Ci furono delle figure che poi ebbero un ruolo importante nel giornalismo della seconda metà del Novecento, penso ad Indro Montanelli o a Longanesi, che fecero di tutto per trasformare questa immagine bonaria del fascismo, questo Mussolini buon uomo – fu uno titoli e lo voglio ricordare – e gli italiani che erano stati fascisti quasi per caso. Questa operazione è stata ripresa a metà degli anni ’80 e ci si è costruito un discorso pubblico che negli anni ’90, con la presenza della destra a trazione berlusconiana, ha avuto il suo spazio.
Questa rimozione è un’altra componente del depistaggio della verità che c’è stato non solo su Piazza Fontana. Negli ultimi 50 anni ci sono stati almeno due tornanti importanti, uno è la strage di Piazza Fontana e tutto quello che ha significato, e le stragi di Capaci e via D’Amelio nel 1992, su cui si costruì un enorme depistaggio.
Se si prende l’intero secolo si nota la ricorrenza di episodi stragisti sempre accompagnati da attività di inquinamento probatorio e di depistaggio da parte degli apparati dello Stato. 1921 a Milano abbiamo la strage del Diana; 1928, sempre a Milano, la strage della Fiera Campionaria. 1947, siamo ormai nella Repubblica, abbiamo la strage di Portella della Ginestra; 1969-1974 abbiamo il ciclo stravista di matrice neofascista. Nel 1978 abbiamo l’agguato di via Fani, il rapimento e la morte di Aldo Moro; nel 1992-93 ci sono le cosiddette stragi di mafia. Questa è una costante impressionante, l’uso di una violenza feroce e indiscriminata rivolta verso cittadini inermi, che avviene ogni qualvolta ci troviamo di fronte ad un cambiamento o regime politico o a untentativo di apertura in senso progressista dal punto di vista sociale e politico. La strage, il botto della violenza, prepara il compromesso politico che è sempre successivo alla strage e alla violenza feroce. E il compromesso politico serve a dare vita a una svolta di tipo moderato, che analizzi quelle voglie di cambiamento e di apertura, le cannibalizzi e le riduca fino a soffocarle. Io direi che questa è una chiave, almeno nel mio libro, per interpretare la storia del Novecento e i rapporti tra politica e violenza.
È accertato, non solo sul piano giudiziario, ma anche dal punto di vista storico, che gli apparati dello Stato come i servizi segreti, alta Polizia e anche i vertici dei Carabinieri, hanno operato un’attività di disinformazione con una serie di depistaggi che possono essere così suddivisi: depistaggi di copertura, depistaggi di provocazione e depistaggi di omissione. Questi sono i più pericolosi, perché significa che gli apparati dello Stato non hanno collaborato fra loro e di conseguenza non hanno fornito, come era loro dovere, le informazioni necessarie alla magistratura che tra il 1969 e il 1971 aveva praticamente già concluso e accertato le responsabilità neofascista sulla strage.
Qual era l’obiettivo di questi apparati dello Stato? Coprire la pista nera, la realtà neofascista, e inventare e valorizzare una pista anarchica. Questa è un’attività che è durata per tutti gli anni ’70 e per un pezzo degli anni ’80. Poi c’è un’altra attività grave che è stata compiuta, quella di favorire l’espatrio di neofascisti che erano sotto processo per piazza Fontana e che nel contempo erano informatori dei servizi. I servizi li hanno protetti fino alle estreme conseguenze, addirittura favorendone l’espatrio in Francia, in Spagna o in Grecia. Penso ad esempio a Guido Giannettini. Questa è la realtà di quanto avvenuto ed è bene che gli italiani la conoscono. E non mi sorprende che oggi Salvini e Meloni fischiettino e voltino la faccia dall’altra parte, verso la destra.
Foto dal gruppo Facebook Milano sparita e da ricordare