Una sconfitta inaspettata per Keiko Fujimori, una vittoria sul filo del rasoio per Pedro Pablo Kuczynski. Sono questi i risultati parziali del ballottaggio presidenziale in Perù. Dati da prendere con grande cautela perché i due candidati sono separati solo da una manciata di voti (meno di un punto percentuale) e il conteggio non è ancora finito.
Lo stesso Kuczynski ha invitato alla prudenza: “Non abbiamo ancora vinto – ha detto ieri sera – bisogna aspettare i risultati ufficiali. Dobbiamo restare vigili perché non ci rubino i voti durante lo scrutinio”. Keiko Fujimori non ha affatto accettato la sconfitta e ha chiarito di voler aspettare che siano conteggiati “i voti del Perù profondo” (quelli delle province più lontane) e i voti espressi dai peruviani all’estero.
Se la vittoria di Kuczynski sarà confermata, vorrà dire che il Perù avrà scelto ancora una volta l’anti-fujimorismo. Più che una vittoria dell’ex-economista della banca mondiale, questa è una sconfitta per il populismo corrotto della famiglia Fujimori.
Sembra di vedere lo stesso film delle elezioni del 2011. Keiko che guida i sondaggi durante i sei mesi di campagna elettorale, ormai sicura di vincere. E il suo avversario che recupera negli ultimi giorni prima del voto, perché il Paese si unisce contro di lei. Cinque anni fa fu Ollanta Humala a beneficiare dell’ostilità a Keiko. Oggi è un ex ministro 77 enne, di tendenze neoliberiste, giudicato da tanti troppo anziano per la carica di presidente e troppo legato agli Stati Uniti.
Kucziynski, se davvero ha vinto, deve ringraziare i tanti suoi ex-avversari che hanno accettato di appoggiarlo nelle ultime settimane di campagna. Julio Guzmán ad esempio, escluso dalla corsa con un cavillo. E Veronika Mendoza, la candidata della sinistra, che ha deciso di accordare a Kuczynski un “voto critico”.
PPK deve ringraziare anche i giovani del collettivo “No a Keiko” che a pochi giorni dal voto sono riusciti a portare in piazza 70 mila persone a Lima, al grido “Keiko no va”, “No al voto blanco o viciado, no al narco-estado”.
Pedro Pablo ha capito che non aveva speranze senza l’aiuto della sinistra e nelle ultime due settimane ha cercato di insistere sui temi sociali, sul diritto all’acqua, sul credito per chi è più povero. Temi che prima erano estranei alla sua campagna, tutta rivolta a destra. La mossa vincente è stata approfittare delle rivelazioni sui legami della famiglia Fujimori con la criminalità e il narcotraffico. Ad aiutarlo è arrivata dagli Stati Uniti la notizia che la DEA (l’agenzia antidroga) sta indagando il principale finanziatore della campagna di Fujimori.
A quel punto gli slogan di Keiko, tutti basata sulle promesse di sicurezza e sulla lotta al crimine, sono risultati meno credibili. Keiko non ha più potuto proporsi come il volto pulito del Fujimorismo. Invece che una sfida fra due candidati, le elezioni si sono trasformate in una battaglia fra democrazia e un autoritarismo corrotto.
“Da lunedì saremo un’opposizione vigile” ha detto Veronika Mendoza dopo aver votato a Cusco, la sua città di origine. La stella nascente della sinistra peruviana ha chiarito che ha appoggiato PPK solo per evitare che vinca Keiko, però dal giorno dopo sarà sua oppositrice. E questo è un ulteriore problema. Se davvero Kuczynski sarà il presidente, si troverà di fronte un Congresso ostile, dominato dal partito di Fujimori, che controlla 73 seggi su 130.
Ci sarà dunque una paralisi? Alcuni analisti prevedono che alcuni parlamentari fujimoristi saranno sensibili al richiamo del potere e appoggeranno PKK. E prevedono che la sconfitta di Keiko darà il via alla guerra con il fratello Kenji, che vuole sostituirla come leader del partito e candidato alle prossime presidenziali, fra 5 anni. Non a caso Kenji Fujimori non è andato a votare per la sorella in queste elezioni: è rimasto platealmente a casa.
Ma il rischio è che Kuczynski cerchi i voti della sua ex avversaria, in caso di bisogno, facendo una politica totalmente diversa da quella per cui è stato votato. In ogni caso, se Kuczynski sarà presidente, dovrà cercare alleanze. In Perù il Fujimorismo, a 16 anni dalla caduta del dittatore, non è ancora archiviato.