Si continua a morire in Siria e lo Stato Islamico non è ancora sconfitto. Ma diversi analisti a Beirut concordano che la fine della guerra potrebbe vedersi all’orizzonte.
“Dopo che Donald Trump ha appaltato a Putin la gestione della crisi siriana, non vedo altri attori che possano mettere un veto a un accordo”, ci dice uno dei più accreditati analisti e storici siriani. Lo incontriamo a Beirut prima del suo ritorno a Damasco e preferisce che il suo nome non venga citato.
I negoziati di Ginevra e Astana sono in corso, ma l’accordo non lo faranno i Siriani bensì i loro alleati stranieri: Russia, Stati Uniti, Turchia, Arabia Saudita, Iran. “Il regime e l’opposizione siriani sono le parti più deboli al tavolo dei negoziati, in questo momento”, spiega il nostro interlocutore.
Una guerra di solito finisce quando nessuna delle parti pensa di poter guadagnare più territorio o risorse attraverso i combattimenti. In Siria sta accadendo proprio questo: “L’Iran sa che non potrà mai prendersi tutto il Paese, perché non c’è una comunità sciita forte in Siria come invece c’è in Iraq”, ci dice l’analista.
Inoltre Teheran “non può fare troppo conto sull’alleanza con Assad, perché i suoi legami con gli Alawiti siriani non sono profondi. E’ un’alleanza più di comodo che di sostanza”, spiega. Di conseguenza, “l’Iran potrebbe accontentarsi di ciò che ha già ottenuto, ovvero Assad ancora al potere, il controllo della direttrice Damasco-Beirut e la garanzia che le linee di rifornimento di armi per gli Hezbollah libanesi rimarranno aperte”.
“L’Arabia Saudita, impegnata nel conflitto in Yemen, non ha più soldi da spendere in Siria. A questo punto accetterebbe qualsiasi accordo che spuntasse le ali all’Iran”, continua il nostro interlocutore.
“La Turchia ha occupato alcune zone al confine, con due obiettivi: impedire la nascita di uno stato curdo e creare delle safe zones (zone sicure) dove far tornare due milioni di profughi siriani attualmente in Turchia, una volta finito il conflitto. L’obiettivo è delineato”.
Gli Stati Uniti, tramite l’opposizione siriana, controllano la zona di Idlib, che è sempre stata una delle province più povere della Siria e che il regime non ha troppa fretta di riprendersi, perché non ci sono né petrolio né altre risorse.
“Il regime potrebbe accontentarsi di controllare saldamente Damasco, Aleppo, l’autostrada che collega le due città e il centro del Paese, dove ci sono città importanti come Homs e Hama. Deve poi riprendere il controllo dei giacimenti di petrolio di Deir Azzor dove adesso c’è l’Isis”.
Varie fonti dicono che la battaglia per riprendere Raqqa e sgominare l’Isis comincerà all’inizio di aprile. Una volta raggiunto l’obiettivo, un importante capitolo della guerra potrebbe venire chiuso.
Infine, Assad vuole anche riprendere il controllo del suo confine meridionale, quello con Israele, dove adesso ci sono vari gruppi dell’opposizione siriana: un paese non è un paese, se non controlla i propri confini.
La strategia di Assad nel Sud è offrire ai guerriglieri dell’opposizione un salvacondotto per il Nord, verso la zona di Idlib, a patto che cedano le armi e si ritirino senza combattere. I negoziati –secondo esperti in Libano – avvengono villaggio per villaggio e stanno in parte avendo successo.
Le milizie libanesi di Hezbollah controllano le montagne di Qalamoun, quelle al confine con il Libano, zona strategicamente importante per loro. Ma anche qui, una volta che l’area fosse saldamente in mano al regime siriano, potrebbero accettare un ritiro.
In questo scenario, una delle grosse incognite è Israele, che potrebbe ancora voler giocare qualche carta militare per poi sedersi al tavolo dei negoziati.
Jihad Yazigi, siriano con base a Beirut, legge il conflitto con lenti da economista. Il suo sito The Syria Report fornisce dati e analisi solo a chi sottoscrive un abbonamento ed è rivolto soprattutto a istituti di ricerca, esperti, agenzie umanitarie.
Ci spiega che chi vince in Siria, dovrà accollarsi anche le spese di uno Stato ormai fallito. Se Assad rimarrà in sella, il suo governo dovrà avere le gambe per camminare e non è ancora chiaro chi vorrà mettere sul tavolo i soldi per ricostruire la Siria.
“Quello siriano è uno Stato che non ha più alcuna entrata: non raccoglie imposte, non ha più i proventi del petrolio, non esporta più nulla, ha enormi spese militari” spiega Yazigi.
Assad ha lottato in questi anni per mantenere in piedi una parvenza di Stato centrale. Per farlo, ha scelto di continuare a pagare gli stipendi ai suoi funzionari in tutti i governatorati della Siria, anche in quelli caduti nelle mani dell’opposizione e dell’Isis. Ha cercato di fornire elettricità e acqua anche in diverse zone da cui il regime era stato espulso, negoziando accordi con le singole milizie.
Dunque, solo spese e nessuna entrata. Yazigi racconta che Bashar Assad – in questi anni di guerra – ha chiesto soldi a tutti, anche alla Russia. Ma Mosca ha ancora l’amaro in bocca per tutti i prestiti elargiti dall’Unione Sovietica ad Assad padre e mai restituiti. La Russia già spende tre milioni di dollari al giorno per mantenere truppe e aerei in Siria e non intende spendere un soldo di più.
In questi anni l’ossigeno per il regime siriano – in forma di prestiti – è arrivato da Teheran: l’ultimo versamento di un miliardo di dollari è stato recapitato a Damasco nel gennaio di quest’anno. Ma l’Iran ha chiesto garanzie sempre più pesanti. Ad esempio “Assad ha dovuto concedere a Teheran lo sfruttamento esclusivo dei giacimenti di fosfati nel centro della Siria: un contratto valido per i prossimi 99 anni”.
“Teheran – a gennaio – ha ottenuto anche la licenza per aprire una nuova compagnia di telefonia mobile in Siria, che si aggiungerà a quelle controllate da Bashar Assad e da suo fratello” spiega Yazigi. La telefonia mobile è l’unico business che ancora genera soldi in Siria. Inoltre, chi gestisce le compagnie telefoniche mette le mani anche sui dati che vengono scambiati.
“Teheran – in occasione dell’ultimo prestito – voleva anche la gestione dei porti siriani di Latakia e Tartus e pare che Assad fosse disposto a concederla. Ma l’accordo non è stato mai firmato”. Forse perché ci sono i Russi, sulle coste siriane?
Prima della guerra l’economia siriana cresceva del 4-5% all’anno, adesso invece la recessione è profonda e la Siria – in quanto a indicatori economici – è in coda all’elenco di tutti i paesi del Medio Oriente, davanti solo alla Somalia.
L’85% dei siriani è da considerarsi sotto la linea di povertà, mentre la povertà quasi non esisteva prima della guerra. Il tessuto sociale è distrutto, il sistema educativo è al collasso, le proprietà di chi è fuggito sono state saccheggiate.
Cinque milioni di siriani sono fuggiti all’estero, 8 milioni sono sfollati interni, ovvero hanno dovuto cercare riparo in altre aree del Paese.
Come verranno accolti questi profughi, quando torneranno? Lo chiediamo a Nour Samaha, una giornalista libanese che copre la Siria per la rivista Foreign Policy e visita regolarmente il paese, soprattutto le aree controllate dal regime. Racconta che a Damasco c’è preoccupazione per un eventuale ritorno dei profughi interni; figuriamoci per quelli fuggiti all’estero.
“Chi è rimasto pensa che tutti quelli che sono fuggiti siano sostenitori dell’opposizione. Questo non è vero, perché ci sono anche tanti che hanno abbandonato la Siria per non fare il servizio militare o per sfuggire ai combattimenti” spiega Samaha. “Ma a Damasco, li accusano di essere andati a fare la bella vita in Turchia o in Europa, mentre loro – nonostante le difficoltà – sono rimasti e hanno cercato di tenere insieme il paese”.
Dunque – a parte le profonde divisioni ideologiche – i Siriani rimasti in patria rimproverano agli altri di essere scappati, di averli abbandonati, di aver abbandonato il loro paese. “Tutti a Damasco non ne possono più della guerra e vogliono che finisca in qualsiasi modo. Soffrono tanti disagi ma non necessariamente danno la colpa al regime: danno la colpa alla guerra stessa, che gli ha portato via tutto. Solo quando finirà la guerra – dicono – si potrà voltare pagina”.
Nour Samaha ha incontrato anche con molti ufficiali e soldati dell’esercito siriano. “Combattono ancora ma sono uomini stremati, che magari hanno passato gli ultimi due anni a Deir Azzor mangiando solo uova sode e patate: mal equipaggiati, da soli contro l’Isis, sotto il sole o al gelo, ogni giorno”.
“Non gli importa neppure più di Assad – conclude Samaha – ma gli importa dello Stato Siriano. Con lo Stato sentono ancora un legame. Combattono perché alla fine del mese il loro stipendio arrivi a casa e la loro famiglia possa mangiare. Nient’altro”.
Come potrebbe essere la Siria del dopoguerra? Un regime chiuso e autoritario, in cui Assad riprende il controllo del paese tramite l’arma della paura e della repressione?
“Il regime, se rimarrà, non potrà mai più essere quello di prima” ci dice il nostro analista che vive a Damasco. “La gente si è ribellata, ha combattuto. La coltre di paura si è rotta”.
Se sarà Putin a decidere il destino della Siria, ebbene: cosa ha in mente il presidente russo?
“Putin vuole prima di tutto uno stato funzionante. Che sia anche democratico, non gli importa” ci dice il nostro interlocutore. “Attualmente il governo siriano ha 30 ministri. Io alla fine penso che la soluzione più fattibile sia quella proposta dall’ESCWA (Onu), ovvero quella di spezzare il governo in 3 terzi: 10 ministri al regime, 10 ministri all’opposizione e 10 indipendenti.”.
“La costituzione che viene dibattuta a Ginevra prevede di decentralizzare e creare due Parlamenti” spiega. “Un Parlamento centrale a Damasco e un altro fatto di piccoli Parlamenti locali sparsi nelle regioni. Ogni regione dovrebbe finalmente beneficiare delle risorse che possiede (petrolio, minerali…)”. Ad esempio Deir Azzor, dove ci sono enormi giacimenti di petrolio, era una delle zone più povere della Siria. “Questo non può accadere in futuro”.
Il nostro interlocutore pensa che lo scenario più probabile sia che Assad rimanga come presidente, ma sullo sfondo, senza grandi poteri, mentre lo Stato verrebbe affidato a un primo ministro forte, una figura di compromesso accettata sia dal regime sia dell’opposizione. Questo premier diventerebbe il punto di riferimento della comunità internazionale.
“Molti dicono che non è possibile, che ci deve essere un leader accettato da tutta la società siriana. Ma un’unica società siriana – purtroppo – non esiste più”.