Allarme rosso per l’aria di Pechino. È il più alto e questa è la prima volta che viene lanciato da quando nel 2013 fu introdotto il sistema dei colori che identificano quattro diversi livelli di inquinamento. Implica la chiusura delle scuole, l’arresto dei cantieri edili e l’introduzione di targhe alterne, nonché lo stop per “alcuni impianti industriali”, come recita l’agenzia stampa di Stato, Xinhua. Comincerà alle 7 di martedì 8 dicembre e durerà 53 ore in tutto, fino alle 12 di giovedì 10 dicembre, quando si prevede che un fronte freddo da nord spazzerà via lo smog. A Pechino, d’inverno, si vive così: si spera che tiri costantemente vento freddo mongolo-siberiano, perché quando smette, sono guai. O si gela, o si soffoca.
In realtà, la qualità dell’aria non dovrebbe essere peggiore di quella della settimana scorsa, quando i rilevatori raggiunsero quota 1000 microgrammi di particelle PM 2.5 per metro cubo, 40 volte più dei limiti considerati accettabili dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. Le PM 2.5 sono particolarmente dannose perché si depositano sui tessuti polmonari e restano lì, provocando nel lungo periodo tumori e lacerazioni; ma sono anche all’origine di problemi cardiaci perché dai polmoni si trasferiscono al sistema sanguigno ostruendone il flusso. Si calcola che in Cina circa 4mila persone muoiano ogni giorno di patologie legate all’inquinamento.
Pechino ha ormai chiuso tutte le sue centrali a carbone, ma le industrie inquinanti dello Hebei, la regione circostante, intossicano la capitale quando c’è alta pressione, umidità e assenza di vento. Altri indiziati sono gli impianti di riscaldamento, le emissioni dei veicoli e la polvere prodotta dai cantieri. Ma la capitale non è la città più soffocata della Cina. Una ricerca di Greenpeace pubblicata a ottobre sottolineava che, se le misure emergenziali sembrano avere qualche effetto a Pechino, il tipo di smog più nocivo è in realtà in aumento in molte altre città. L’inquinamento dell’aria cinese sarebbe diminuito del 12 per cento rispetto allo scorso anno in termini assoluti, ma quasi l’80 per cento delle 376 città prese in esame ha ancora livelli pericolosi, superando gli standard nazionali e internazionali.
Attivisti ambientali hanno detto che nella città nord-orientale di Shenyang, il mese scorso, si sono toccati 1.400 microgrammi per metro cubo, il peggiore inquinamento mai visto entro i confini nazionali. In quell’occasione, il dito fu poi puntato contro 110 aziende del Dongbei (nord-est) che non avevano rispettato le norme sulle emissioni inquinanti. Nella casistica riportata da Xinhua c’era un po’ di tutto: tre delle aziende non avevano ridotto i ritmi di produzione anche dopo la proclamazione dello stato d’emergenza, quindici non erano riuscite a controllare le emissioni dovute al riscaldamento, un centinaio invece avevano semplicemente emesso inquinanti dalle proprie ciminiere senza porsi il problema. La Cina sta cercando di riconvertire il proprio sistema industriale, ma a livello locale le norme ambientali sono spesso disattese perché dalle industrie inquinanti dipende talvolta l’economia di intere comunità.
Due giorni fa, la municipalità di Pechino aveva lanciato un allarme arancione, il secondo più alto, con due giorni d’anticipo rispetto alla prevista ondata di smog. Anticipare l’arrivo dell’inquinamento significa dare tempo alle scuole, ai cantieri e alle industrie di chiudere.
Il governo della capitale aveva subito innumerevoli critiche all’indomani del 30 novembre, quando l’allarme fu lanciato troppo tardi. Il ministro della Protezione Ambientale, Chen Jining, ha giurato domenica di punire severamente sia gli uffici governativi sia i singoli funzionari responsabili che non riescono ad avviare tempestivamente il piano di emergenza inquinamento.
Nella catena di comando, qualcuno deve pagare, anche se il problema appare strutturale: finché la Cina non riuscirà a compiere la propria transizione verso un’economia più evoluta, l’inquinamento continuerà ad affliggerla.
Pare che il presidente Xi Jinping si sia infuriato dopo l’ondata di smog che ha colpito Pechino la settimana scorsa, proprio mentre lui volava a Parigi per parlare alla Conferenza sul clima. Sono però i giornali più vicini al governo – come il nazionalista Global Times – a riportare questa volta che la Cina è in ritardo sul problema dell’inquinamento proprio perché il sostegno finanziario del governo è inadeguato e questo non consente di creare a livello nazionale un database di monitoraggio aperto e trasparente. Evidentemente, l‘inquinamento non è ancora considerato una priorità. Oppure si spera che il rallentamento in corso dell’economia cinese risolva automaticamente il problema, grazie alla riduzione dell’attività produttiva di parecchie fabbriche.