Se per capodanno siete a Parigi perché non fare una passeggiata nella famosa e famigerata banlieue parigina, secondo il delirio mediatico ricettacolo ormai di tutti i mali e paure, universo terrificante percorso da neri jiahdisti sempre in agguato. Per la bisogna vi serve un’automobile e un punto di partenza.
Meglio anche un accompagnotore pratico dei luoghi, dandovi appuntamento nel giardino Rosa Luxemburg, ai margini del XVIII arrondissement, più in là ecco la banlieue. Ci si perde subito, la banlieue è riconoscibile perché, se non sei di lì, niente t’orienta. Tutto sembra affastellato più o meno a caso, viali, strade, case, immobili, piazze, persone. Non ti guidano i colori – tutti grigiastri con sfumature varie – non gli stili delle costruzioni, neppure i rumori, non ascolti la strada cicaleccia – camminando in banlieue non si conversa – o quella col rombo dei motori oppure il marciapiedi dove percepisci il ticchettio dei tacchi alti femminili; c’è un unico indistinto brusio che sembra salire dal ventre della terra.
Quando diventa un rombo è meglio che ti scansi. Oppure sprofondi in un silenzio desertico, con panorami postumi da dopoguerra come il gasometro abbandonato sulla destra, ma sulla destra di che, e verso dove. Neppure hai, come a Parigi, il riferimento della Senna, la rive gauche e la rive droite, o quello del Canal St. Martin, le intelaiature della metropolitana di superficie, i ponti sul fiume, per non dire della Tour Eiffel.
Ma se l’accompagnatore scantona a sinistra con la passione per la storia, alzando gli occhi ai nomi delle vie potrete leggere Karl Marx, Lenin, Clara Zetkin, Maurice Thorez, Jean Moulin. Quando sbucate in rue Karl Liebknecht – il dirigente spartachista ucciso a Berlino dal governo socialdemocratico tedesco assieme a Rosa Luxemburg, il giardino da cui siete partiti, e lì di fianco imboccate rue Frédéric Joliot Curie, fisico chimico Premio Nobel nel ’34, siete a Sainte-Geneviève-des-Bois, una trentina di chilometri da Parigi. Joliot, comunista dal 1942, Presidente del Fronte Nazionale della Resistenza di Parigi, preparò e condusse l’insurrezione urbana contro i nazisti – le micidiali molotov chimiche utilizzate contro i tank uncinati essendo inventate e per così dire brevettate proprio da lui.
Dieci anni fa nella banlieue parigina rullarono i tamburi, e migliaia di giovani insorti dettero nascita alla città delle banlieues, che ancor oggi fa tremare l’establishment, di destra e di sinistra, ma senza usare che io sappia le molotov chmiche. Le vie e le piazze di quelli che qualcuno chiamava non luoghi, dove per definizione vivono dei non cittadini, si riempirono di ragazzi che praticavano la democrazia delle barricate e la solidarietà degli oppressi, esclusi, discriminati, giovani che semplicemente volevano esistere come cittadini della Republique a pieno titolo.
La rivolta ebbe un un soggetto portante, i beurs, i giovani immigrati di seconda generazione in specie d’origine maghrebina, naturalizzati francesi a milioni, per volontà e legge di Mitterand. Invece l’attuale Presidente Francois Hollande li vedrebbe volentieri privati della nazionalità francese, se a giudizio inappellabile dell’esecutivo su indicazione dei servizi, fossero considerati sovversivi verso l’ordine costituito. La norma dovrebbe essere valida per chi abbia una doppia nazionalità, come spesso accade ai beurs e agli altri immigrati naturalizzati francesi, circa 3,3 milioni.
Sull’onda dello stato d’emergenza è questo il cuore nero della proposta di revisione costituzionale recentemente presentata dal Presidente. Non a caso il Manifesto ha titolato Francois Le Pen, ripreso in tutto rilevo sulla pagina web di Le Monde. Lo stesso quotidiano scrive in un editoriale non firmato: “La decisione presidenziale costituisce un doppio pesante errore. Da una parte porta pregiudizio al principio di eguaglianza dei cittadini, fondamento della Repubblica inscritto nell’articolo 2 della Costituzione. Essa riviene, in effetti, a istituire due categorie di Francesi, quelli che lo sarebbero senza contesto e quelli che non lo sarebbero completamente a motivo che i loro genitori o nonni non lo erano. D’altra parte riprendendo per suo conto una misura da lungo tempo richiesta dal FN, il capo dello Stato si assume la responsabilità, maggiore, di banalizzarne la detestabile logica xenofoba.” Colpito e affondato.
Qualcuno spiega questa iniziativa di Hollande che richiama in modo sinistro quelle prese contro anarchici e comunisti dal governo filonazista di Petain a Vichy portando Piketty a parlare di “infamia”, come un opportunismo politico per contrastare l’avanzata del FN di Marine Le Pen; eventualmente un’idiozia quindi, più che un’infamia. Personalmente credo che Hollande sia un nazionalista “di sinistra” con nostalgie coloniali. Andando a ritroso nella mia agenda ho trovato un appunto del 24 febbraio 2015 dove segnavo l’espressione usata in quei giorni da Hollande di francais de souche, francese di ceppo (o di stirpe), per indicare un valore aggiunto distintivo, scrivendo per promemoria: “usata al tempo della guerra d’Algeria!!!”.
Un’espressione tipica inoltre della vague bleu Marine (Le Pen), quasi che l’antico culto della nazione pura, incontaminata, fosse diventato il tessuto connettivo dello Stato francese odierno. La Francia, o almeno larga parte del suo ceto politico e di governo, sembra una nazione dimentica che la città non è fondata sulla terra, e tantomeno la cittadinanza è fondata sulla stirpe o ceppo. Già i romani, pur con corsi e ricorsi, definivano una cittadinanza urbi et orbi, cioè universale senza distinzioni di razza, lingua, religione – se non eri uno schiavo, è ovvio.
Per di più una nazione intrisa di cultura coloniale, a destra e a sinistra. Più precisamente la Francia contemporanea è, si considera, l’erede di un impero coloniale molto esteso dal Maghreb all’ Africa “nera”. In altri termini, sta emergendo un rimosso coloniale assai generalizzato, non più tenuto a freno dalla vergogna e sdegno che le crudeltà perpetrate durante la guerra d’Algeria dalle truppe francesi d’occupazione e dall’azione fascista e golpista dell’OAS, avevano generato nell’opinione pubblica democratica tanto a destra che a sinistra. Un mio amico marsigliese originario d’Algeria arrivato in Francia ancora in fasce, ebbe a raccontarmi la seguente storia: “Dopo avere lavorato come docker e aver vissuto qua trentanni otteni finalmente la carta d’identità francese. Tutto contento e orgoglioso andai in questura a ritirarla. Aprendola lessi: indigeno dei territori d’oltremare! Fu una umiliazione atroce”. Un’umiliazione che Mitterand cancellò, e chissà Hollande sub specie di lotta al terrorismo, non disdegnerebbe ripristinare.
Tornando in banlieue, in quella corona di paesi e cittadine che circonda Parigi, di francais de souche se ne trovano pochi. I cittadini figli della terra e legati alla terra, se pur esistono, sono rari. La banlieue è un enorme mescolatore di etnie, culture, religioni, lingue con una fetta grande di popolazione nomade. Insomma, un universo di grande biodiversità che sfugge tanto al pensiero unico quanto all’ordine unico. Un territorio sismico e vulcanico dove bisogna imparare a vivere col terremoto, e dove s’accumulano i reietti della terra, i moderni colonizzati, o piuttosto: il governo e l’establishment sembrano pensare che l’unico modo di controllo, se non di governo, per questo sistema vulcanico sempre sull’orlo dell’eruzione, sia una sorta di politica coloniale fatta di bastone e carota, mai di diritti, eguaglianza e libertà.
La banlieue nell’immaginario dei francesi di ceppo franco francese prende il posto che ebbe la casbah algerina per i pied noir, i francesi d’Algeria, che persa la guerra furono espropriati e scacciati, approdando alla madrepatria cosidetta, con poche cose raccattate alla svelta. D’altra parte è cosa vecchia. Non cominciò forse il maggio ’68 in quel di Nanterre – cittdina della banlieue profonda – quando un “ebreo tedesco” per di più anarchico contestò l’ordine della separazione tra maschi e femmine nei dormitori, venendo espulso dall’università per calare poi su Parigi coi suoi compagni al seguito, e ne venne fuori quel po po di sommossa fin dentro le più rispettabili grandi scuole e alzando barricate lungo i boulevard. E non fu forse l’anarchico ebreo tedesco espulso dalla Francia? Certo nel 2005, quando insorsero i beurs (figli di immigrati dal Nord Africa, ndr), il potere agì in modo più pesante.
Sarkozy al tempo ministro degli interni li chiamò racaille, teppaglia, instaurando lo stato d’emergenza, sulla base della legge del 1953, destinata ai ribelli d’Algeri e ai loro simpatizzanti. Migliaia furono arrestati, centinaia condannati, molti a pene parecchio lunghe. Quando poi Hollande si presentò, parve riaprirsi uno spazio politico: circa 400 persone provenienti dal movimento si candidarono nelle liste della sinistra. Salvo che Hollande, una volta eletto, non mantenne alcuna promessa, tra cui quella del diritto di voto alle elezioni municipali per gli immigrati residenti.
Il Presidente letteralmente finse di non averla mai pronunciata, lasciandola cadere senza spiegazione alcuna. A questo s’aggiunse un vero e proprio crash, un punto di non ritorno, quando fu approvata la legge contro il diritto per le donne mussulmane di indossare il velo. Lì una parte dei giovani di cultura islamica ruppe con la Republique, individuata come mentitrice, incapace di tenere la parola data, e discriminatoria. Non per religione ma per politica, tutte le statistiche convergendo sul fatto che l’influenza della religione si esercita solo su un qualche per cento dei giovani beurs tra i 15 e 24 anni. Nonostante, alle ultime elezioni la sinistra ha ottenuto la maggioranza in molti comuni della cintura coll’essenziale contributo dei giovani, mentre il FN sta in media intorno al 14 per cento, e nelle aree più popolari oscilla attorno al 10 per cento. Per esempio a Saint-Denis, comune di oltre centomila abitanti sull’orlo di Parigi con un sindaco comunista, la sinistra unita ha preso il 66 per cento e il FN l’11 per cento.
Saint-Denis, una città di oltre centomila abitanti con una intensa vita sociale e culturale, un Comune di sinistra con ampia maggioranza, una bellissima antica basilica, e una università tra le migliori. Fate conto Sesto San Giovanni a Milano negli anni ’70. Saint Denis invasa nella notte del 18 novembre da centinaia di uomini in armi per trovare e prendere alcuni degli attentatori e autori degli attacchi terroristici in Parigi, che dopo un prolungato scontro a fuoco vengono tutti uccisi.
Così almeno recita la vulgata mediatica, dove anche si parla di terroristi armati fino ai denti che resistono per ore. Intanto il sindaco ha aperto il municipio – sono le quattro del mattino – per offrire informazioni e rifugio ai cittadini. Ma Le Monde, sulla base di un rapporto delle forze di polizia – Conditions d’interpellation de six individus lors de l’intervention du 18 Novembre – racconta una storia diversa. Alle 4.15 di notte il RAID (il gruppo antiterrorismo d’elite) scatena l’attacco violentissimo, facendo uso di granate e sparando circa cinquemila colpi. A fronte non ci sono i tanto conclamati AK 47 o altre armi da guerra come il direttore del RAID aveva lasciato intendere, ma soltanto viene ritrovata una Browning semiautomatica, senza caricatore e con un colpo in canna. “In tutta evidenza, il fuoco nutrito (dei terroristi, n.d.r) non è stato così intenso come si disse”.
Oppure che dire dello scambio di parole tra degli uomini del RAID e Hasna Ait Boulahcen (membro del commando, cugina di Abbaoud, sospettato di essere la mente degli attentati, ndr), quando lei chiese due volte di poter uscire. “Signore, vi prego, lasciatemi uscire, lasciatemi uscire almeno – proseguendo – sta per fare esplodere qualcuno. Signore. Ho paura, ho paura”. Hasna sarebbe la cugina di Abdelhamid Abaaoud, considerato il capo, o uno dei, trovata morta tra le rovine, asfissiata.
Altre incongruenze sottolinea il giornale, ma noi qui vorremmo chiederei come mai si è usata la forza in modo così disproporzionato, blindando un intero quartiere per ore e ore tanto che la stessa polizia giudiziaria è stata ammessa sulla scena del crimine per i suoi rilevamenti solo alle 14. La banlieue rossa, immigrata, ribelle aveva forse bisogno di una lezione? Furono le prove generali del funzionamento dello stato di polizia? Oppure si trattò di semplice confusione?
Infine vorrei concludere con una lezione di Deleuze che insegnava all’università di Saint-Denis. Era molto affollata di persone le più varie, altri professori, sempre qualche giornalista, suoi amici illustri e anonimi, parecchi giovani palesemente banlieusard, muovendosi sempre tangenziali lungo possibili vie di fuga e coprendosi le spalle a vicenda. Le discussioni erano accese, molti ragazzi intervenivano su un piede di parità con i professori e altri intellettuali. Insomma un buon clima dove circolavano intelligenza e empatia tra eguali. Dopo si esce e tutto cambia. Se incontravi un posto di blocco, tu bianco passavi senza colpo ferire, i ragazzi più colorati invece o svicolavano o riuscivano a fondersi con noi, oppure venivano inevitabilmente fermati. Non solo i più giovani ma pure gli uomini fatti. A volte Deleuze stesso doveva interporsi. Dai flic questi giovani beurs acculturati erano ancora più angariati dei loro coetanei senza arte ne parte: finchè questi bougnoules (termine spregiativo con cui vengono designati gli arabi) spazzano i cessi si può essere indulgenti, ma se vogliono emanciparsi, addirittura pretendendo di filosofare, beh.. allora vanno rimessi al loro posto. Con le buone o le cattive. Meglio queste ultime.