Il viaggio di papa Francesco in Messico è stato finora caratterizzato dalla denuncia del narcotraffico e dei suoi culti pseudo-religiosi, ma anche dalla rivendicazione delle lingue e della cultura degli indigeni, emarginati ed esclusi fin dai tempi della Conquista.
Ora è il turno del Muro, di quel muro tra Messico e Stati Uniti che simboleggia la separazione netta tra Nord e Sud del pianeta, tra Paesi poveri e Paesi ricchi, tra economie forti ed economie periferiche. Una barriera di filo spinato eretta per bloccare le persone, che al momento separa le grandi città di frontiera e le aree spopolate, ma che dovrebbe arrivare presto a coprire oltre 1.100 chilometri di confine diventando la seconda opera di contenimento al mondo dopo la Muraglia cinese.
Un impedimento per le persone, ma non per le merci che circolano liberamente tra Messico e i suoi vicini del Nord grazie all’Accordo NAFTA firmato nel 1994. Il primo di una serie di accordi bilaterali che hanno smontato le barriere doganali e regolamentarie degli Stati per rendere più libera la concorrenza, ma che tra contraenti così lontani dal punto di vista economico e sociale, come Canada, Messico e Usa, ha penalizzato il più debole.
Il Messico, che aveva poche merci da esportare a Nord, mentre il suo forte era il mercato agricolo, è stato disastrato dall’arrivo senza freni dei prodotti alimentari coltivati negli Usa, mais in primis, con prezzi stracciati perché sovvenzionati con le generose erogazioni dei governi di Washington. Quei piccoli e medi contadini rovinati dalla concorrenza sleale hanno trovato nel tempo una coltivazione più redditizia, il papavero da oppio e la marijuana. Il Messico è diventato infatti il principale fornitore di droghe del più grande mercato mondiale, gli Stati Uniti, trovando così un suo ruolo economico nella globalizzazione. Un’economia gestita però dai cartelli dei Narcos, i più forti oggi al mondo.
Ciudad Juarez è zona ad altissima intensità di attività illegali perché da qui passano i camion utilizzati per il trasporto di eroina e cocaina ed è anche il territorio del cartello di Juarez, quello fino a poco tempo fa guidato da Amado Carrillo, il Señor de los Cielos della serie di Netflix. Eh già, perché la potenza e ricchezza dei capi narcos sono raccontate e amplificate da Hollywood che continua a sfornare fiction che hanno come protagonisti questi novelli signori della morte.
Grazie al NAFTA, il Messico ha avuto anche il dubbio onore di essere il primo Paese a conoscere la “delocalizzazione produttiva”, cioè l’arrivo di imprese che aprivano capannoni dal lato messicano per assemblare parti prodotte negli Usa sfruttando il basso costo della manodopera locale e la mancanza di legislazione in materia ambientale. Sono le imprese cosiddette maquiladoras, una tipologia conosciuta successivamente in Asia e in altri Paesi latinoamericani che non lascia nulla a lungo termine al Paese ospitante, né in termini di occupazione né in crescita della capacità industriale.
Ciudad Juarez è il simbolo di questi sconvolgimenti recenti della storia nordamericana e globale perché da sempre città-cerniera tra i due mondi dello sviluppo. Capitale di un fenomeno brutale e inquietante: la sparizione e uccisione di giovani donne. Centinaia di donne vittime di cartelli della droga e della prostituzione, ma pare anche da serial killer in trasferta dagli Stati Uniti. Non a caso qui è nato il termine “femminicidio” per indicare le donne come target ben definito di un’orrenda tipologia di reato.
In questo tessuto sociale ed economico totalmente devastato dalla cultura dell’illegalità, arriva papa Francesco e inizia la sua visita dai detenuti del penitenziario locale, un luogo dal quale è meglio tenersi alla larga, per poi andare a pregare davanti al “Muro de la tortilla” e mettere i piedi nel piatto sul tema delle migrazioni. Forse riuscirà a vedere di persona i centroamericani che sono riusciti ad arrivare vivi fino questa frontiera. Persone che, anche se in difficoltà estrema, sono state fortunate perché dal momento in cui i migranti entrano in Messico, dal Chiapas, diventano ostaggi e preda dei cartelli della droga che li sequestrano, più spesso ancora li ammazzano, per storcere soldi ai parenti nei Paesi di origine.
Superati i cartelli della droga, l’odissea non è finita, perché a Ciudad Juarez si gioca la carta vera: l’ingresso negli Stati Uniti organizzato dai coyotes, i trafficanti di disperati. Lunghe camminate notturne nel deserto, guidati da persone che al primo problema scapperanno, sperando di non essere scoperti dalle guardie di frontiera e dai “cittadini” che volontariamente danno una mano per cacciare indietro i clandestini.
Se il mondo attuale potesse essere raffigurato con le categorie bibliche, Ciudad Juarez sarebbe uno dei capoluoghi dell’Inferno. È per questo che Papa Francesco ha scelto questo posto per concludere il suo viaggio pastorale in Messico. Sono così giganteschi e drammatici i problemi di questo lembo di America Latina da assumere una dimensione globale. Un viaggio pastorale alle periferie di un Paese periferico, una scelta controcorrente che lascerà profondi segni laddove si cerca disperatamente un punto di riferimento etico che la politica locale non è in grado di offrire.