Per ventitrè settimane Federico Mastrolilli, fondatore del blog Lacrime di Borghetti, ha raccontato agli ascoltatori di Olio di Canfora le squadre che, oltre all’Italia, compongono l’Europeo francese.
Un viaggio da Belfast a Istanbul, passando per Reykjavik e Budapest. Un viaggio in cui i ricordi di talenti e santoni del passato, Hakan Sukur e il colonnello Lobanovsky oppure Angelo Niculescu, si fondono con i riferimenti culturali e con il privato dell’autore.
Che è comune a quello di molti giovani nati negli anni Ottanta, membri della famigerata generazione Erasmus. Ragazzi, un tempo, che ancora soffrono il mal di schiena dai tempi dell’Interrail, che ancora si commuovono ripensando alle agre giornate da lavapiatti a Brighton.
Oggi questo viaggio è divenuto un libro: Olio di Canfora, Edizioni InContropiede.
Vogliamo qui proporvi il capitolo che Federico Mastrolilli, che venerdì 18 giugno aprirà la festa di Radio Popolare con una presentazione in anteprima, ha dedicato alla Svezia, prossimo avversario degli azzurri di Conte.
Questa la colonna sonora suggerita durante la lettura:
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Per il viaggiatore del sud, la Svezia è il paese del candore. Alla fine del primo anno di università, con Dario decidiamo di ripercorrere a ritroso il viaggio di Gustav von Aschenbach per trovare una metaforica morte nelle acque gelate dello Jutland danese, sulla punta di Skagen, dove i due mari del nord si scontrano. Alla morte – letterale – del giorno, seduti a gambe incrociate sull’ultima banchina, osserviamo le luci delle barche che solcano la lingua di mare davanti ad Helsingborg e decidiamo di attraversarla, questa lingua, portando il nostro interrail un po’ più in là.
A Malmö presto ci annoiamo di passeggiare per il parco e finiamo, ovviamente, davanti allo stadio. È una mattina soleggiata in mezzo alla settimana. Il sabato – leggiamo, o almeno intuiamo, alla biglietteria – c’è il campionato. Dalla capitale, viene l’AIK a far visita. Non potendo restare che per un altro giorno in città, chiediamo se sia comunque possibile fare un giro dello stadio. Certo, risponde un guardiano all’ingresso, fate pure. E ci apre la porta che conduce agli spogliatoi.
Dentro siamo solo noi. Attraversiamo un corridoio alle cui pareti prendono polvere foto di vecchie glorie, la stanza in cui gli arbitri si cambiano, la sala stampa dove ai tubi bianchi è appeso un telone di plastica con i loghi degli sponsor (Canal +, Puma, Sport Bladet). All’improvviso un fascio di luce: il paradiso. L’erba del campo è appena tagliata ed emana profumo di rovesciate acrobatiche. Accarezzo i pali della porta con la stessa tenerezza con cui, la notte prima, ho accarezzato le gambe d’alabastro della povera Anna. Con un pallone lasciato incustodito Dario gonfia la stessa rete in cui un certo Zlatan ha scoperto, per la prima volta, che i giardini di rose non sono dei ghetti periferici, ma quelli che calpesta ogni volta che indossa gli scarpini.
Potrei non finire mai di raccontare tanto candore. Quel festival tra i boschi in cui, dopo il suo concerto, mi fermai a parlare con Sarah, una giovanissima cantante che si faceva chiamare El perro del mar, e decisi che non sarei mai tornato a Roma. Quel compagno delle elementari che al Fantacalcio era convinto di aver comprato un centravanti del Bologna che si chiamava Kandersson, con la kappa. L’attaché femminista dell’Istituto culturale svedese di Roma che traduceva Grazia Deledda e alle feste respingeva i corteggiatori più colti e sofisticati, per poi farsi mettere incinta, come se fosse un racconto arbasiniano, da un ingegnere di Reggio Calabria che ballava benissimo.
Eppure la Svezia si annoia di tutto questo candore, e dopo un po’ anche io. Non a caso, i veri trascinatori in campo sono sempre stati degli outsider: Martin Dahlin, Henrik Larsson, Yksel Osmanovski, Zlatan Ibrahimovic. Gente che faceva a pugni con la vita, come la ragazzina protagonista di “Fucking Åmål”, che quando con Fede Olivo arrivammo, in ritardo, al defunto cinema Gioiello sulla Nomentana, e alla cassa chiedemmo se c’eravamo persi molto, la vecchia ci rispose “ma no, ce sta una che beve, se droga, fa’ robba”. Come Magnus, omone di 40 anni che vive con la madre ed è il tifoso numero uno dell’Hammarby. È il protagonista di “Questo è Söderstadion”, il documentario sulla triste fine dello stadio della squadra del popolare quartiere di Stoccolma. Quando la presidenza annuncia che vuole buttarlo giù per costruirne uno nuovo da divedere con i rivali del Djurgården, Magnus, che, tipo Karl Kraus, scrive per intero, pubblica e distribuisce ogni domenica il match program, si siede al tavolo della cucina Ikea, si prende la testa tra le mani e inizia a piangere a dirotto, come un’adolescente svedese a cui il ragazzo simpatico conosciuto l’estate a Viserbella, nonostante le promesse, non scrive più.