I capelli più grigi. La retorica dello “Ys We Can” meno infiammata. Se si confrontano le immagini di questo ultimo discorso sullo Stato dell’Unione di Barack Obama con quelle del 2009, all’inizio della sua presidenza, si contano gli anni passati e le battaglie politiche trascorse. Nel suo ultimo appello a camere riunite, Obama non è però parso meno risoluto rispetto a sette anni fa. Ha rilanciato l’immagine dell’America come “Paese più potente al mondo”. Ha messo in guardia contro coloro che “predicano paura e demagogia”.
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E’ stato un discorso più breve rispetto a quelli passati, ma più ironico, rilassato, in certi momenti apertamente caustico. Senza un’agenda di provvedimenti da far approvare nell’anno che gli rimane alla Casa Bianca, Obama ha preferito dipingere una visione d’insieme. Il presidente ha certo fatto riferimento ad alcune delle politiche che vuole seguire nei prossimi mesi, in particolare la chiusura di Guantanamo e le azioni esecutive su armi e immigrazione. E, a un certo punto, come promemoria per il futuro, ha anche elencato quattro grandi questioni, quattro domande cui dare risposta: “Come dare a ognuno sicurezza e pari opportunità nella nuova economia? Come far funzionare la tecnologia per noi, e non contro di noi? Come mantenere l’America sicura, in grado di guidare il mondo, senza farla diventare il poliziotto del mondo? Come fare in modo che le nostre politiche rappresentino il meglio, e non il peggio di noi?”
Detto questo, gran parte del discorso è stato dedicato al richiamo ai principi fondativi degli Stati Uniti. Il presidente ha anzitutto chiesto di rigettare la paura, il senso di frustrazione e insicurezza che generano pregiudizio e razzismo. Non è sfuggito a nessuno il riferimento al dibattito politico corrente, e alla figura di Donald Trump, quando Obama ha detto che “mentre cresce la frustrazione, ci saranno voci che ci chiedono di tornare a divisioni tribali, a prendere come capri espiatori dei nostri concittadini, che non appaiono come noi, che non pregano come noi, che non votano come noi, o che non condividono la nostra stessa educazione”. Sarebbe un errore, ha continuato Obama, “perché non renderebbe più forte la nostra economia, né ci renderebbe più sicuri. Soprattutto, questa posizione contraddice tutto ciò per cui il mondo ci invidia”.
L’insulto ai musulmani, ha detto Obama, “non ci rende più sicuri. Non è dire le cose come sono. Semplicemente, è qualcosa di sbagliato”. Richiamare i pericoli del razzismo gli è servito per riaffermare la validità della politica seguita nei confronti dell’ISIS in questi mesi. “Non dobbiamo cedere alla loro propaganda. Non dobbiamo scatenarci per dimostrare che siamo seri, né allontanare degli alleati vitali accettando la menzogna dell’ISIS – ha spiegato -, e cioè che esso sia rappresentativo di una della maggiori religioni al mondo. Dobbiamo invece chiamarli con il loro vero nome: assassini e fanatici”. Mentre, di fronte a lui, in sala, il senatore repubblicano John McCain scuoteva visibilmente il capo, contrariato, Obama ha risposto alle critiche di chi in questi mesi lo ha accusato di aver sottostimato il “problema ISIS”: “Nel momento in cui puntiamo a distruggere l’ISIS, proclami esagerati sul fatto che questa è la terza Guerra mondiale fanno il gioco di quella gente. Masse di militanti sul retro dei camion e anime contorte che complottano in appartamenti e garage rappresentano un pericolo enorme per i civili e devono essere fermati. Ma essi non sono una minaccia alla nostra stessa esistenza”.
E’ stato invece sui temi economici che Barack Obama ha riconosciuto la realtà della frustrazione di molti americani. “In questa economia totalmente nuova, lavoratori e piccoli imprenditori faticano a far sentire la loro voce. Le regole non lavorano a loro favore”. Promettendo di usare il suo ultimo anno alla Casa Bianca per migliorare le condizioni di queste fasce di popolazione, e della classe media in generale, il presidente è sembrato riecheggiare toni che in questa campagna presidenziale sono stati usati soprattutto dal candidato della sinistra, Bernie Sanders. “Chi dipende dai buoni pasto non ha causato la crisi finanziaria; è stata l’imprudenza di Wall Street a causarla”. Gli immigrati non sono la ragione perché i nostri salari non sono cresciuti a sufficienza; quelle decisioni sono prese nelle sale dei consigli di amministrazione che troppo spesso privilegiano guadagni di breve periodo”.
Pur riconoscendo la realtà della frustrazione e delle difficoltà, Obama ha difeso l’azione della sua amministrazione in campo economico, ricordato la creazione di nuovi posti di lavoro e dipinto un futuro di stabilità per gli Stati Uniti. “Chiunque proclami che l’economia americana è in declino vende pura finzione”, ha detto, con un accenno piuttosto esplicito ai rivali repubblicani, che stanno facendo campagna elettorale in questi mesi attaccando le politiche del presidente e rappresentando un’America fiaccata dalla crisi, dall’insicurezza e dallo sconforto per il futuro. Contro questa visione a tinte fosche, il presidente ha rilanciato un’immagine di ottimismo e di speranza: “L’America è il Paese più potente al mondo. Punto”, ha detto, in uno dei passaggi più applauditi dai democratici (mentre i repubblicani sono rimasti ostinatamente seduti, in silenzio, per tutta la durata del discorso).
In un solo passaggio del discorso Obama ha espresso un “rimpianto” per il suo periodo alla Casa Bianca. E’ stato quando ha ammesso di non essere riuscito a cambiare i termini del di battito politico di Washington, di non essere stato in grado di riconciliare l’America. “Il rancore e il sospetto tra i partiti sono aumentati… Forse presidenti come Lincoln o Roosevelt sarebbero riusciti dove io ho fallito”. Si è trattato però soltanto di un passaggio, forse di un espediente retorico per colpire ancora una volta la Washington politica, che non l’ha mai amato e che lui non ha mai amato.
Per il resto, Obama ha pensato soprattutto a rilanciare il messaggio di fiducia che nelle sue intenzioni resta il vero lascito della sua presidenza. In un passaggio finale, con il riferimento alla figura che più lo ha segnato, quella di Martin Luther King, è anche parso risentire gli accenni della campagna elettorale del 2008, quello dell’hope and change: “Non sarà cosa facile. Il nostro tipo di democrazia è complesso. Ma vi posso promettere che tra un anno, quando non sarò più presidente, sarò con voi, come cittadino – ispirato dalle voci di giustizia e visione, di gentilezza e positività che hanno aiutato il viaggio dell’America sinora. Voci che non ci fanno considerare in primo luogo come bianchi o neri, asiatici o latini, gay o etero, migranti o nativi, democratici o repubblicani. Ma che ci fanno pensare a noi stessi anzitutto come americani, legati d aun credo comune. Voci che il dottor King credeva avrebbero alla fine avuto il sopravvento – voci di verità disarmata e amore incondizionato”.