La politica dal basso la stanno facendo le donne. Mentre il governo ripete ogni 25 novembre slogan di circostanza contro la violenza di genere, le persone che non sopportano un femminicidio ogni tre giorni – ma nemmeno gli stupri, un numero schiacciante di obiettori di coscienza negli ospedali, i salari più bassi e i tagli al welfare scaricati sulle spalle delle donne – sono scese in piazza, compatte e combattive.
Fianco a fianco le operatrici dei centri antiviolenza non istituzionali, le ragazze dei collettivi, le tante associazioni che lavorano sull’educazione alle differenze, le famiglie tradizionali e non, i gruppi lgbtq, nonne, madri, figlie, nipoti. Una geografia del paese, che da nord a sud si confronta con la metà della popolazione discriminata, ignorata, esclusa dai posti di potere.
Il femminismo ritorna, come è stato nella sua storia: delle sue pratiche e dei suoi slogan si appropriano le generazioni più giovani. I problemi non sono cambiati, si sono evoluti, la cultura sessista è sempre forte, diffusa e tramandata. C’è un abisso tra la politica istituzionale, prigioniera della conservazione, e la piazza di Non una di meno, ricca di proposte, differenze, consapevolezza.
Il messaggio lanciato al governo è chiaro: il piano nazionale antiviolenza non funziona. Il modello securitario non produce effetti e non ha alcuna valenza preventiva. Occorre finanziare in maniera certa e strutturale i centri antiviolenza ed inserire finalmente i corsi di educazione alle differenze nelle scuole. Il contrasto alla violenza è un tema culturale, il femminismo è la filosofia che ne ha indagato in maniera profonda le radici. È ora di avere il coraggio di farlo tornare nel discorso pubblico e politico, come hanno fatto oggi tante giovani donne e uomini.
Domani ricomincia il lavoro delle associazioni. Obiettivo della giornata e dei tavoli tematici: costruire un piano antiviolenza femminista alternativo a quello del governo.