
Ci sono dei fumetti emblematici che riescono a rimanere sempre attuali. È purtroppo anche il caso del fumetto scritto e disegnato dal franco-beninese Yvan Alagbé, a cui l’autore ha lavorato dal 1994 al 2011 e che ha pubblicato per la prima volta in Francia nel 2012. Purtroppo, perché lo spaccato della realtà dei migranti che emerge da queste pagine, con tutte le sue contraddizioni, non è cambiata molto negli ultimi 30 anni.
Il libro, intitolato ‘Negri gialli e altre creature immaginarie’ e implementato nella versione italiana da racconti scritti in periodi più recenti, compreso un omaggio alla memoria di Thomas Sankara, contiene una serie di storie collegate tra loro. Da un capitolo all’altro ritroviamo alcuni personaggi e le stesse tematiche: un ex poliziotto che irrompe nella vita di due clandestini, una donna abbandonata sulla strada da un tassista in esilio, lavoratori fantasma in sciopero per un anno. E soprattutto delle riflessioni profondamente personali e politiche su amore e razzismo, colonialismo, speranza, oppressione e fuga. Il tutto raccontato con un ritmo incalzante che può disorientare, anche per le scelte stilistiche.
Inizialmente il racconto che da il titolo al libro, Negri Gialli, scritto a fine ‘94, prevedeva che tutti i personaggi avessero la pelle gialla, che fossero europei, magrebini o dell’Africa Subsahariana. “Un negro giallo, ha dichiarato Alagbé in un’intervista, è qualcuno che ha la pelle del mio colore. In Benin vivevo in un quartiere con molte etnie diverse e lì ero considerato bianco. Quando lo racconto in Francia, le persone si stupiscono perché lì mi considerano nero”. Alla fine però ha scelto di lavorare con dei bianchi e neri spogli, perché ama la forza che conferiscono ai disegni. È un segno che si adatta molto bene al suo stile fatto di alternanza di ellissi visive e di esplosioni di testo soggettivo o incompleto, che creano una poesia politica a fumetti capace di spaziare dal realismo e dal racconto sequenziale, a un espressionismo crudo ed evocativo, grazie anche a delle rappresentazioni più astratte.
Tra le sue fonti d’ispirazione l’autore evoca i film di Fassbinder o di Pasolini, che portano sullo schermo la vita degli emarginati. Le opere di Faulkner, con la loro capacità di mettere a fuoco la dimensione plurale e intricata della realtà. I fumetti di Baudoin o di Muñoz e Sampayo. Ma anche il fotografo maliano Seydou Keïta. Citato direttamente sia nel capitolo Sand Niggers che in Dyaa, dove racconta dal punto di vista di Martine la sua tragica storia d’amore con un altro migrante. È proprio da un libro dedicato al fotografo che viene la parola «dyaa», che significa tanto il nostro doppio quando sogniamo quanto la nostra immagine fotografata, la nostra ombra o il nostro riflesso in uno specchio. Una parola che forse condensa da sola molti degli interrogativi esistenziali posti da questo fumetto, che ne fanno un’opera lucida e necessaria.