Nanni Moretti, già premiato con la Palma d’oro per La stanza del figlio nel 2001, è tornato a Cannes per presentare il suo ultimo film Tre piani. Barbara Sorrentini lo ha intervistato in esclusiva per Radio Popolare.
Come mai hai deciso, per la prima volta, di lavorare a una sceneggiatura tratta da un libro?
Avevo già fatto dei timidi tentativi nei riguardi di alcuni libri, ma non sono mai stato molto convinto. Io, Maria Santella e Federica Pontremoli stavamo girando a vuoto da più di un anno su un soggetto ambientato negli anni ’50 quando un giorno Federica mi ha detto: “Perché non leggi Tre piani?” Io sono lento come lettore, ma quel libro l’ho letto velocemente, senza nessuna sensazione di sentirmi diminuito come autore solamente perché, per la prima volta, volevo trarre un film da un libro. Ho deciso subito di farlo. Spiegare perché è difficile, ho sentito che in quel libro, in cui si parla di colpa, di rapporti tra genitori e figli, del senso di responsabilità e delle conseguenze delle nostre scelte c’era qualcosa di importante e di denso. Volevo che fosse il mio nuovo film.
Hai deciso subito di interpretare uno dei personaggi?
No, non ho deciso subito. Mentre lavoravamo alla scrittura di Tre piani le sceneggiatrici hanno insistito perché interpretassi Vittorio. L’ho fatto volentieri cercando di stare in equilibrio tra l’interpretazione di quel personaggio e l’intenzione di me regista, la volontà di comunicare agli spettatori la rigidità e la durezza di quel personaggio.
Nell’ultimo periodo il microcosmo del condominio è diventato un punto centrale delle nostre vite. Che cosa hai provato lavorando al tuo film durante la pandemia?
Il film era già pronto a marzo. Sarebbe dovuto uscire ad aprile e andare a Cannes nel 2020. Mi sono stupito di essere riuscito, anche con una certa calma, a far passare tutto questo tempo e nel frattempo di esser riuscito a lavorare a un altro progetto. Per i registi è una cosa normale, ma a me non è mai successo di iniziare a preparare un film prima di far uscire quello precedente.
Il condominio è un microcosmo che siamo stati costretti a scoprire durante la pandemia. Durante quest’ultimo anno e mezzo, però, abbiamo anche capito che è impossibile pretendere di far a meno degli altri, della collettività e della comunità. La pandemia ha smascherato questa bugia. Anche nel mio film sono presenti i microcosmi degli appartamenti, ma nel finale c’è un movimento verso l’esterno, verso gli altri, quelli lontani da noi e quelli con cui si vuole riallacciare un rapporto.
Il film uscirà a settembre. Hai evitato le piattaforme per poter andare al cinema?
Sì, non giudico chi è andato su Netflix, Sky, Amazon o altre piattaforme, ma io non posso prescindere dal cinema. Prima che da regista, produttore, attore ed esercente parlo da spettatore. Non posso fare a meno di andare al cinema a vedere i film degli altri. I miei gusti e i miei sentimenti di spettatore hanno sempre influenzato le mie scelte di regista, per questo motivo non ho mai pensato di dare i miei film alle piattaforme. Magari glielo venderemo dopo, quando sarà già uscito in più paesi possibili
Com’è cambiato il modo di fare cinema negli ultimi anni?
Mi sembra di essere tornato all’epoca dei miei filmini in Super 8, solo che ora è più facile montarli e farli vedere. All’epoca montavo su una moviolina di pochi centimetri quadrati, strizzando gli occhi per capire cosa dicessero i personaggi. Per far vedere i miei film dovevo portarmi dietro le pizze, il mio proiettore e l’amplificatore. Non era facile. Ora, grazie ai telefonini, è tutto più semplice, ma gli aspiranti registi e registe non devono illudersi che fare un film sia facile. Bisogna riflettere bene sul mezzo espressivo che si usa. L’agilità dei nuovi mezzi, a volte, fa scavalcare la fase della riflessione. Bisogna costruirsi un proprio stile, sapere quello che si vuole e soprattutto, quando si inizia, quello che non si vuole.
ASCOLTA L’INTERVISTA DI BARBARA SORRENTINI A NANNI MORETTI:
FOTO| Festival di Cannes