Nadia Murad ha ricevuto il Premio Nobel per la Pace il 5 ottobre 2018 insieme al medico e attivista congolese Denis Mukwege. Vi riproponiamo l’intervista di Radio Popolare alla giovane attivista.
Ottobre 2016 – Ridotte in schiavitù, torturate, stuprate dai miliziani dell’Isis ma poi sono riuscite a fuggire. Lamia Haji Bashar e Nadia Murad sono diventate loro malgrado testimoni viventi dell’orrore dello Stato Islamico e del genocidio del popolo yazida. Oggi il Parlamento europeo ha deciso di assegnare proprio a loro il Premio Sakharov 2016 come riconoscimento della loro battaglia in nome della “libertà dello spirito”.
Nadia Murad, anche candidata al nobel per la Pace e diventata a settembre ambasciatrice dell’Onu per la dignità dei sopravvissuti alla tratta di esseri umani, era stata tra le protagoniste del Festival dei Diritti Umani dello scorso maggio. Bianca Senatore l’aveva intervistata. Vi riproponiamo qui le sue parole.
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Anche se non parlasse, i suoi occhi racconterebbero lo stesso una storia terribile. Ma Nadia Murad, la giovane yazida che è riuscita a scappare dalle grinfie dell’Isis, invece, ha deciso di raccontare tutto, per far conoscere al mondo ogni più piccolo e spaventoso dettaglio della sua prigionia. I suoi ventuno anni sono lì da qualche parte, tra le mani ancora un po’ graffiate, i capelli neri con qualche filo argentato e il viso stanco, ma ha la forza di una vera combattente. Nadia è stata rapita dal suo villaggio, Kocho, nel nord dell’Iraq, nell’agosto del 2014 ed è stata portata Mosul come schiava di un miliziano che lei ricorda essere gigantesco, un omone che la sovrastava e la picchiava. “Non ho dimenticato nulla di quei terribili giorni” ha detto a Milano, dove è arrivata per portare la sua testimonianza al Festival dei Diritti Umani.
Per tre mesi Nadia è stata tenuta segregata, violentata ripetutamente anche come punizione per i suoi tentativi di fuga ed è stata “venduta” da un carnefice all’altro prima di riuscire a scappare definitivamente. “Sono stata aiutata da una famiglia che mi ha dato dei documenti falsi e mi ha dato degli abiti come quelli delle altre donne musulmane e così sono riuscita a passare inosservata”. Ha raccontato. Ora che l’incubo è finito, è diventata, suo malgrado, testimone vivente degli orrori del califfato. “Voglio a tutti i costi far sapere al mondo che quello che è successo a me succede ancora a molte altre donne”, ha detto Nadia Murad. “Ci sono ancora miglia di ragazze come me e anche più piccole nelle mani dell’Isis, il mondo non può chiudere gli occhi”. Parla lentamente, si vede che ogni parola le costa uno sforzo, ma non si ferma. “Sto raccontando la mia storia in tutto il mondo, per spingere le Nazioni a unirsi per fermare questa minaccia”.
Parla a nome della piccola comunità yazida, Nadia, bersagliata dagli uomini del califfato, ma anche a nome di tutti gli uomini e le donne di fede islamica che vedono oltraggiata la loro religione, utilizzata per un’ideologia folle. “Quando i miliziani sono arrivati al villaggio, hanno ucciso tutti gli uomini, mentre noi donne siamo stati portate via con loro. Con la forza. Hanno preso anche molti bambini, ma loro, strappati dalle braccia delle madri, sono stati portati nei campi di addestramento dell’Isis, per formare la futura leva di jihadisti”. Si ferma, respira, ogni tanto si guarda intorno come per essere sicura che tutto quello che è successo dopo la sua liberazione sia tutto vero: viaggi in Europa, in America, discorsi alle Nazioni Unite e davanti a chiunque voglia sapere cosa sta succedendo. A Milano ha incontrato molte scuole e ai ragazzi ha detto una cosa importante. “Siete fortunati ad avere uno Stato che vi difende”. Il riferimento è al Governo dell’Iraq che non ha avuto la forza di tutelare la piccola comunità yazida, decimata dagli uomini di questo autoproclamato stato islamico perché accusata di adorare il diavolo e di essere politeista. “Io vorrei tanto tornare nel mio Paese un giorno – ha detto – a studiare, coltivare la terra con la mia famiglia e farò in modo di riuscirci”.
Ascolta l’intervista a Nadia Murad