C’è un’immagine che il mondo non potrà mai dimenticare, Muhammad Ali che accende la torcia olimpica durante la cerimonia inaugurale dei giochi di Atlanta 1996. È l’immagine di un uomo che non riesce a nascondere i segni della malattia, ma che con grande generosità si espone per celebrare l’ideale più alto dello sport. Perché Muhammad Ali si era sempre esposto con grande generosità, nel bene e nel male. Da persona malata per far vedere le conseguenze del Parkinson. Da giovane per vantare la sua bellezza, la sua agilità, la sua fede islamica, la sua intelligenza, “io sono il più grande”. Perché, come amava ripetere, “ la gente umile non va molto lontano”. Ma la sua superbia era solo un atto politico, da sbattere in faccia ai giornalisti e all’America bianca e razzista.
Non si chiamava ancora Muhammad Ali quando buttò nel fiume Ohio la medaglia d’oro vinta a Roma. Era tornato in America da vincitore dei Giochi, provò a entrare in un ristorante di Louisville: “Sono Cassius Clay, campione olimpico, e anche se lì c’è scritto riservato ai bianchi, non mi cacceranno”. Invece fu cacciato, perché lui era nato sulla sponda sbagliata del fiume.
Nel 1967 gli tornò in mente quel episodio, il giorno in cui decise di non andare a combattere in Vietnam: “Non ho nulla contro i vietkong, quelli non mi hanno mai chiamato negro”, disse. Pagò a caro prezzo quel gesto pacifista con una condanna a 5 anni di carcere e il ritiro del titolo di campione del mondo.
Ma Muhammad Ali non fu mai prigioniero delle sue certezze. Famosa la sua frase: “l’uomo che a 50 anni vede il mondo così come lo vede quando ne aveva venti ha sprecato trent’anni della sua vita”. Questo gli permise di riconoscere gli errori del passato, come aderire alla setta “Nation of Islam “ e rompere con l’amico fraterno Malcom X. Muhammad ali è stato il primo campione globale, amato, venerato e rispettato in tutto il mondo.
Più che atleta, un’icona culturale e una forza sociale e politica. Che la terra ti sia lieve, immenso campione sul ring e nella vita