Sulla maglia Johan Cruyff portava il 14. Chi non mastica di calcio deve sapere che prima di lui ogni numero aveva un ruolo: il 5 era lo stopper, il 9 il centravanti e il 10 il regista. Scegliere il 14 significava sancire l’assoluta e rivoluzionaria diversità di un modo di concepire il calcio. Era il manifesto dell’Olanda del “calcio totale” dove tutti facevano tutto. Nessuna cifra sulla maglia, proprio come nessuno schema era in grado di imbrigliarlo. Ma Cruyff, come insegna la sua storia di calciatore e allenatore a Barcellona, era un marziano anche fuori dal campo di calcio.
Figlio del popolo, fu tesserato dal club ebraico di Amsterdam dove arrivò piccolo assieme alla mamma, che ci andò a lavorare come lavandaia. Cruyff a Barcellona divenne lo straniero che la liberò dall’atmosfera della dittatura franchista. Quando sbarcò in città nel 1973, il livore antifranchista era sì poderoso e diffuso, ma represso. Con lui si esplicitò.
E questo gli è riconosciuto a tal punto che, pur essendo uno straniero, è diventato, per Barcellona, essenza dell’identità cittadina quanto la Sagrada Familia. Il Barça non era la squadra stratosferica di oggi: quando Cruyff debuttò era penultimo in classifica. Con lui il Barca vinse il titolo della Liga dopo 14 anni di astinenza, non succedeva dai tempi di Helenio Herrera, Suarez e Kubala. Lo 0-5 con cui la squadra da lui ispirata, il 16 febbraio del ’74, umiliò il Real Madrid al Santiago Bernabeu davanti a centomila increduli madrilisti, gli fece definitivamente capire che da quelle parti il calcio non era uno sport, ma un affare politico. E lui non era solo un calciatore, ma un liberatore.
Per capire che non è una esagerazione basta ricordare che Cruyff decise di chiamare suo figlio Jordi, in onore alla Catalogna. E siccome i nati a Barcellona, sotto la dittatura di Franco, non potevano essere chiamati con nomi catalani, decise di far nascere Jordi ad Amsterdam. Tra i suoi dribbling vincenti, uno dei più affascinanti…