Venticinque anni fa nel mare davanti a Livorno morivano 140 persone. Il traghetto Moby Prince, appena partito dalla città toscana e diretto a Olbia, si schiantò contro una petroliera. Scoppiò un incendio che uccise tutte le persone a bordo del traghetto, tranne un mozzo. I processi seguiti alla strage non hanno portato a una verità accettata dai familiari delle vittime.
L’anno scorso è stata istituita una commissione parlamentare d’inchiesta. “Sta lavorando molto bene – ci dice Angelo Chessa, figlio del comandante del Moby Prince e presidente dell’associazione 10 aprile. – Emergono fatti importanti, di cui noi siamo convinti da 25 anni. I giudizi netti della commissione su diversi aspetti confermano che avevamo ragione in pieno”. Uno dei punti di cui parla Chessa è il tempo di sopravvivenza delle persone che erano sul traghetto. “Si tratta di diverse ore e non di pochi minuti, come invece dissero i periti del tribunale di Livorno. Ricordiamo che il suo presidente è stato condannato in via definitiva per corruzione, per delle villette all’Elba. Immaginiamoci cosa possa essere successo per gli interessi legati al Moby Prince”.
Chiediamo al figlio del comandante qual è la sua idea personale sulla strage. “Credo che quella sera si siano incrociati molti interessi. Innanzitutto quelli dello Stato: la petroliera Snam-Eni stava facendo qualcosa che non doveva fare ed era ancorata in un luogo in cui non doveva essere. Poi c’è l’armatore del traghetto, che un anno dopo fu protagonista di un aumento di capitale di 20 miliardi di lire. Nessuno ha indagato su questo, nonostante lo chiedessimo con forza. Infine penso al ministero della difesa, perché quella notte la rada di Livorno fu data in mano agli americani, che con sette navi piene di armi facevano i comodi loro”.
Ascolta l’intervista ad Angelo Chessa