In campagna elettorale, Donald Trump l’ha chiamata the weave. È l’andare a zig-zag, dire cose scomposte, una sorta di vagabondaggio incoerente, in cui alla fine tutto si ricompone. Il futuro presidente ha anche detto che ci sono professori di inglese che sono rimasti estasiati, sbalorditi, di fronte a queste sue doti.
Ecco, la conferenza stampa di Mar a Lago, oggi, è stata l’esempio perfetto di the weave. Un lunghissimo, incoerente vagabondaggio tra minacce, proclami, falsità, riscritture della realtà. Alcune di queste erano note. Per esempio, le sue rivendicazioni sul canale di Panama e sulla Groenlandia. Per prendersi il canale, di cui lamenta tariffe di passaggio troppo alte, Trump non ha escluso la forza militare. Per conquistare la Groenlandia, che fa gola per le sue risorse e posizione, Trump ha minacciato dazi altissimi sulle esportazioni danesi. Minacce anche per il Canada che dovrebbe, grazie a forme di pressione economica, chiedere di unirsi agli Stati Uniti.
Essendo poi uomo d’affari molto attento al brand, Trump ha proposto di ribrandizzare, cioè di rinominare il golfo del Messico, chiamandolo Golfo d’America. Tutta la conferenza stampa è stata intessuta del suo scontento per il governo messicano, che non farebbe abbastanza per bloccare illegali e droga. Trump ha anche detto che sono state le sue minacce a far decidere Meta di abbandonare il fact checking. Ha detto che è pronto a scatenare l’inferno se gli ostaggi non verranno rilasciati da Hamas. Ha detto che l’inflazione non è mai stata così alta. Non è vero, è al 2,7 per cento. Ha lodato la giudice Aileen Cannon, che ha nominato lui, che ha bloccato la pubblicazione del rapporto su di lui dello special counsel Jack Smith. E poi, questa non si era mai sentita, Trump è sembrato implicare che ci sia Hezbollah dietro l’assalto al Congresso del 6 gennaio.