Sarebbero circa 9mila i rohingya dello stato Rakhine di Myanmar che da sabato scorso hanno attraversato il confine con il Bangladesh per fuggire la repressione messa in atto dalle forze di sicurezza birmane a seguito di scontri con locali gruppi separatisti. Nell’ultima ondata di violenze che affliggono la minoranza musulmana discriminata in patria, si conterebbero già un centinaio di vittime.
Di fronte all’emergenza umanitaria e politica, stride il comportamento di Aung San Suu Kyi, ministro degli Esteri e leader di fatto di Myanmar, che mai ha riconosciuto i rohingya come legittimi cittadini del Paese, echeggiando in questo senso le posizioni oltranziste dei nazionalisti buddisti. L’ultima uscita della premio Nobel per la pace è stato un attacco su Facebook alle organizzazioni umanitarie internazionali, che accusa di avere fornito generi di prima necessità a gruppi islamisti: fondamentalmente, alimenti distribuiti alla popolazione locale. Il post è stato in seguito rimosso dal social media.
Da Ginevra, l’Alto Commissario per i Diritti Umani, Zeid Ra’ad al-Hussein ha definito le parole di Suu Kyi “irresponsabili”, perché mettono in pericolo non solo la popolazione dello stato Rakhine ma, a questo punto, anche gli operatori umanitari. Hussein ha chiesto anche al governo di Naypyidaw, che formalmente è democratico ed è guidato dalla Lega Nazionale per la Democrazia di Suu Kyi, di tenere a freno le violenze dei militari. Immagini satellitari hanno rivelato che ampie zone dello Stato Rakhine – a cui è interdetto l’accesso da parte delle forze di sicurezza – sono in fiamme. Si teme che sia in corso l’incendio dei villaggi rohingya.
Hussein ha denunciato che “decenni di violazioni persistenti e sistematiche dei diritti umani, tra cui reazioni molto violente della sicurezza agli attacchi dell’ottobre 2016, hanno quasi certamente contribuito ad alimentare l’estremismo violento”.
È percezione diffusa che il governo civile non sia in grado di controllare il Tatmadaw, l’esercito birmano, sia perché la costituzione riserva ai militari una quota di scranni in parlamento ed è impossibile varare leggi che li colpiscano, sia per la potenza capillare che le forze armate hanno accumulato nei decenni della dittatura. Ma il problema è che la stessa “lady”, già amata acriticamente dall’Occidente, sembra del tutto vicina alla aggressiva paranoia di quei buddisti che strumentalizzano un presunto pericolo islamico per compiere una vera e propria pulizia etnica. E non solo da ora.
Sulla rivista Mekong Review, l’esperto di cose birmane Andrew Selth fa una critica impietosa della parabola di Aung San Suu Kyi e del culto della personalità che da sempre la circonda. Tra le altre cose si legge: “L’atteggiamento di Aung San Suu Kyi nei confronti dei rohingya e dei musulmani in generale era già in dubbio. Dopo i disordini nello stato Rakhine del 2012 e altri attacchi contro i musulmani del 2013, rimase in silenzio. All’epoca, un commentatore l’aveva accusata di aver preso le parti di ‘razzisti anti-musulmani ben organizzati’. Nel 2015, ha proibito ai membri musulmani della Lega Nazionale per la Democrazia di candidarsi nelle elezioni generali. Nel 2016, aveva rivolto un commento anti-musulmano a una presentatrice della Bbc, che l’aveva sollecitata a condannare la violenza settaria in Myanmar. Lo stesso anno, ha chiesto a tutti i funzionari e ai diplomatici stranieri presenti in Myanmar di non utilizzare il termine ‘rohingya’ (in cui si identificano molti musulmani dello stato Rakhine). Preferiva il termine ‘persone che credono all’Islam nello Stato Rakhine’.”