Il futuro del lavoro è il titolo dell’ultimo rapporto dell’Ocse sull’occupazione pubblicato la settimana scorsa. È interessante in particolare la parte italiana di questa ricerca. Un lavoro che si trasforma per i cambiamenti tecnologici e per le relazioni che si instaurano tra i Paesi in cui il mercato del lavoro è ormai globalizzato. Il lavoro del futuro che stiamo vivendo già oggi, più che essere l’espressione di una innovazione virtuosa a volte sembra aver invece il volto un po’ della restaurazione: il futuro sembra riproporre in alcuni casi antichi vizi del passato. Pensiamo ad alcuni aspetti dei cosiddetti “lavoretti”, la Gig Economy, la riproposizione di lavori a cottimo sottopagati, con pochi diritti.
Il rapporto dell’Ocse sul futuro del lavoro presentato la settimana scorsa mette in luce alcuni dati incardinati attorno a quattro punti sostanziali. Il primo è quello che parla di rischio di automazione del lavoro. È un rischio reale che varia attraverso i Paesi e fornisce due cifre: il 14% dei lavori potrebbe essere completamente automatizzato in futuro e il 32% dei lavori di oggi potrebbero subire dei cambiamenti significativi. Il secondo punto riguarda il mercato del lavoro che si sta trasformando. Secondo l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo in Europa, che raccoglie una trentina tra i Paesi sviluppati dell’Occidente, nel ventennio che va dal 95 al 2015, l’occupazione nel settore manifatturiero è calata, 20% in meno, mentre è cresciuta del 27% nel settore dei servizi. Il terzo punto sostiene che molti adulti non hanno adeguate competenze per i lavori emergenti, 6 lavoratori su 10 non hanno competenze di base nel settore delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione la cosiddetta ICT. Ultimo punto è quello che riguarda la protezione sociale che ha bisogno di essere adattata al futuro del lavoro: lavoratori indipendenti, part-time e temporanei sono in crescita. In alcuni paesi c’è una probabilità alta per queste professioni di rimanere senza copertura in caso di perdita del lavoro, è una probabilità del 40-50%.
Lele Liguori ha intervistato due ospiti durante la puntata di Memos del 30 Aprile: Daniela Palma, economista e ricercatrice all’Enea che si occupa di economia industriale dell’innovazione e Stefano Scarpetta, economista e direttore all’Ocse per l’occupazione e le politiche sociali.
Siamo ancora una società del Lavoro come avevano in testa 70 anni fa i nostri costituenti? Con quel famoso “fondata sul lavoro” dell’Articolo 1.
Scarpetta: Sì siamo sicuramente una repubblica fondata sul lavoro. In Italia come nei Paesi europei e nei Paesi Ocse in realtà i tassi di occupazione, cioè le persone in età lavorativa che hanno un posto di lavoro, è ai livelli più alti dal dopoguerra in poi. Il problema vero è la qualità del lavoro. Al di là del fatto di avere un posto di lavoro, che remunerazione si ha? Quante ore si lavorano e che prospettive di carriera si hanno? È sulla qualità del lavoro che bisogna concentrarsi perché in Italia ci sono molti lavoretti, lavori precari e lavori che non hanno prospettive di carriera, soprattutto per i giovani.
Siamo ancora una società che ha una alta considerazione del lavoro anche per lei?
Palma: Sì, come diceva Scarpetta, il problema l’ha anticipato bene lui: è quello della qualità. Il lavoro è sempre più collegato a lavori di tipo precario, temporaneo, non di elevata qualità. Che cosa sottendono questi questi lavori temporanei, questi lavori precari? Prevalentemente c’è il dato di una struttura produttiva che si confronta con diversi Paesi europei che presentano quote di lavoro qualificato ben più elevate dell’Italia, quindi vanno in direzione di una domanda di produzione molto più coerente nel tempo, con la possibilità di creare nuove opportunità di lavoro. Non è tanto la precarietà in sé ma quanto il fatto che tutto il lavoro che viene proposto in Italia riflette una struttura produttiva che non è completamente in grado di essere al passo con l’evoluzione di una domanda, che poi è trainante per poter creare lavoro e occupazione.
Il rischio di automazione
Soffermiamoci in particolare sull’Italia. Anche qui le affermazioni portanti delle analisi Ocse si basano sostanzialmente su tre grandi capitoli: quelli che riguardano il rischio dell’automazione, quelli che riguardano la formazione professionale e poi quelli che riguardano la protezione sociale.
Partiamo da quello che riguarda i lavori a rischio di automazione: anche se il numero di occupati probabilmente non diminuirà, la qualità del lavoro e le disuguaglianze tra lavoratori potrebbero peggiorare. Come arrivate a questa conclusione?
Scarpetta: Ci sono diversi studi che nel passato avevano paventato il rischio di una disoccupazione di massa tecnologica, con una perdita secca di posti di lavoro. Nelle nostre analisi bisogna ricordare che c’è un enorme incertezza rispetto a come le nuove tecnologie entreranno nei processi produttivi. Però secondo le nostre analisi il rischio di perdita di posti di lavoro a causa dell’automazione è soltanto del 14-15% in Italia. A questo 14-15% però se ne affianca un altro 30, nel caso dell’Italia 35% di posti di lavoro che rimarranno ma in cui una quota sostanziale delle mansioni che vengono svolte oggi dai lavoratori potranno essere svolte da macchine, robot e intelligenza artificiale. Quei posti di lavoro rimarranno ma i lavoratori dovranno adeguarsi a svolgere nuove mansioni che siano complementari a quello che le macchine potranno fare.
Quindi lo scenario che noi prevediamo è quello non di tassi di disoccupazione elevatissimi ma di tensioni ulteriori verso delle diseguaglianze sul mercato del lavoro tra coloro i quali hanno le competenze giuste per poter cogliere tante opportunità di lavoro anche con ottime prospettive di carriera che l’economia digitale sta generando e genererà nel futuro, e coloro i quali non hanno le competenze e non sono neanche nel mercato del lavoro più dinamico per cui rischieranno di diventare complementari alle macchine ma con lavori anche a bassa remunerazione, con bassi livelli di competenze richieste.
Quindi uno dei rischi potenziali del futuro è quello di maggiori diseguaglianze sul mercato del lavoro nella qualità del lavoro tra coloro i quali avranno le buone opportunità di lavoro nell’economia dinamica legate alle nuove tecnologie e coloro i quali potranno essere legati in opportunità di lavoro con minore remunerazione e con minori prospettiva di carriera. Per cui la formazione professionale, non solo attraverso l’istruzione e la scuola, ma anche attraverso la formazione continua degli adulti diviene fondamentale.
Una innovazione tecnologica che non provoca disoccupazione di massa, ma che può creare invece una divisione in un mercato del lavoro fatto di lavoratori iper-specializzati ed altamente qualificati da un lato e una quota di lavoratori con bassa qualità professionale rispetto a quello che sarà richiesto dalla innovazione tecnologica dall’altro. Non si resta disoccupati ma si resta ai margini del mercato del lavoro. Questo è il rischio?
Scarpetta: C’è sicuramente un rischio perché tutte le nostre ricerche nazionali sono basate anche sull’evidenza di quello che è già avvenuto e sta avvenendo. Se guardiamo i dati sull’Italia vediamo che i sotto-occupati, cioè coloro i quali sono considerabili come occupati perché hanno un posto di lavoro ma lavorano meno delle ore che vorrebbero lavorare, è raddoppiato dal 2006 al 2016. In Italia i livelli di occupazione sono i più elevati dal periodo del dopoguerra a oggi ma in realtà una parte di quegli occupati sono sotto-occupati. Lavorano meno ore rispetto a quello che vorrebbero ma anche perché molti di loro svolgono lavoretti o lavori precari a bassa remunerazione.
Già oggi abbiamo delle forti tensioni sul mercato del lavoro italiano non soltanto in termini di numero di posti di lavoro ma soprattutto sulla qualità dei posti di lavoro e con delle forti disuguaglianze tra chi ha delle buone opportunità di lavoro e chi invece ha dei lavori precari con scarse prospettive di carriera. Dall’altro lato le tecnologie offrono anche molte opportunità ad esempio possiamo fare il telelavoro che crea molta flessibilità. Questa flessibilità sicuramente è una cosa positiva ma non tutti avranno le opportunità e le capacità di poter utilizzare la maggiore flessibilità che le nuove tecnologie ci offrono.
Il quadro che si prospetta sulla base di questa indagine è un futuro del lavoro che rispetto al fenomeno dell’automazione non rischia di provocare una disoccupazione di massa, però rischia di provocare è un aumento sostanzioso della diseguaglianza tra lavoratori altamente qualificati e lavoratori che non lo saranno e che quindi resteranno ai margini del mercato del lavoro, non solo per la loro posizione lavorativa ma anche per quanto riguarda i salari, le remunerazioni e quant’altro. Lei ci si ritrova in questa fotografia, il rischio vero del futuro è quello di avere un mercato del lavoro spaccato in due?
Palma: In qualche misura sì, però bisogna ragionare su quello che è l’assetto della della struttura produttiva, della specializzazione produttiva di ciascun Paese. Quello che è stato osservato mette in evidenza che questa polarizzazione si è particolarmente accentuata in Italia verso lavori poveri, temporanei, precari e a bassa qualificazione, dopo la crisi. Questo fatto può essere confrontato con una occupazione non del tutto soddisfacente dei laureati cioè i lavoratori più qualificati che come si sa spesso sono sono costretti a emigrare. Quindi il problema non è soltanto quello di una maggiore qualificazione perché in realtà la domanda di lavoro in Italia si posiziona su livelli qualitativi più bassi e induce sostanzialmente una sorta di circolo vizioso.
Sono necessarie politiche che agiscano dal lato dell’offerta di lavoro quindi migliore qualificazione e istruzione ma non bastase poi non si interviene dal lato della domanda di lavoro quindi dell’assetto della struttura produttiva. Perché aumentano i servizi, questo è vero, però ci sono delle dinamiche molto più interessanti per i servizi ad alta intensità di conoscenza che si integrano maggiormente, creano un circolo virtuoso di crescita e di domanda di lavoro nei Paesi che hanno settori industriali più avanzati ad alta intensità di ricerca.
La formazione professionale può fare la differenza
Se il problema del futuro è in parte visibile anche già oggi, non è se ci sarà occupazione si o occupazione no, cioè se ci sarà o meno un fenomeno di disoccupazione di massa legato all’innovazione tecnologica, ma il problema sarà invece la frattura che si approfondirà tra i lavori specializzati e quelli che potremmo definire lavori poveri.
Se questo sarà il problema vuol dire che ancora più rilevante sarà il tema della formazione professionale, come risanare questa frattura? Il sistema italiano di formazione permanente non è attrezzato per le sfide future, solo il 20% degli adulti in Italia ha partecipato a programmi di formazione professionale nell’anno precedente questa rilevazione. Se quello è un problema e sarà il problema centrale, andare a colmare quella differenza di formazione professionale diventerà essenziale.
Scarpetta: C’è questo fenomeno di bassa crescita economica, di scarso investimento, di scarsa innovazione. L’Italia ha delle grosse eccellenze in vari comparti industriali però nel suo insieme è un Paese in cui la crescita della produttività è stata stagnante negli ultimi vent’anni. In cui sì, si creano posti di lavoro ma a bassa produttività e bassa remunerazione. All’interno di questo fenomeno generale c’è anche il fatto che le imprese italiane offrono poche opportunità di formazione professionale: il 20% rispetto a una media Ocse del 40%. L’altra cosa è che la formazione professionale tende ad aumentare diseguaglianza invece di ridurle, nel senso che le persone più qualificate sono quelle che ricevono più formazione professionale durante la vita lavorativa mentre le persone meno qualificate, cioè quelle che ne avrebbero più bisogno perché sono quelle che sono sul posto di lavoro ad alto rischio di automazione, sono quelle che ricevono meno formazione professionale. In Italia soltanto il 60% delle imprese con 10 addetti o più offre formazione professionale.
Rafforzare la formazione professionale ma soprattutto dare opportunità anche ai lavoratori a bassa qualifica diventa veramente una sfida molto importante. Si rilanciano gli investimenti produttivi, si rilancia l’innovazione e quindi poi si rilancia la crescita economica. In quel contesto effettivamente la formazione professionale diviene un pilastro fondamentale di questa crescita dell’Italia.
Vedo due grafici significativi. Un grafico è quello che rappresenta la quota dei salari sul PIL in diversi paesi europei, si vede che la tendenza per tutti questi Paesi, Germania, Italia, Spagna e Francia è la stessa: va a calare dagli anni 70 fino agli anni 2000 ma una quota dei salari sul PIL si riduce. La fetta di torta che va ai lavoratori si riduce. Un altro grafico è quello che rappresenta l’andamento del PIL italiano per ore lavorate. Qui c’è una curva che cresce in continuazione dagli anni 80 fino alla fine degli anni 90 e poi si stabilizza, resta dritta. Quindi i salari diminuiscono ma la produttività del lavoro è aumentata o comunque non è calata. Come si spiega questo?
Palma: Ci sono alcune tendenze generali per cui la riduzione della quota dei salari non è soltanto una una caratteristica italiana, c’è stato un problema in generale di moderazione salariale però questo ci riporta ai problemi che abbiamo citato precedentemente: cioè la difficoltà dell’Italia a competere su determinati segmenti produttivi a più alta crescita della domanda, che generano una maggiore competitività. Questo ha portato anche il Paese a rifugiarsi su guadagni basati sul contenimento del costo del lavoro. Questo naturalmente può creare una situazione di sopravvivenza per le imprese ma nell’insieme diventa un palliativo soprattutto se si guarda la questione in termini strutturali, la capacità di un Paese di adeguarsi all’evoluzione di una domanda alla quale non si riesce più a a rispondere.
Quindi competere sul costo del lavoro è diventato un asset della competitività che pone molti problemi e naturalmente fa sì che il sistema si avviti ulteriormente perché deprime la domanda interna, dopodiché la domanda estera diventa più incerta perché non siano degli asset più robusti rispetto ad altri Paesi e si capisce che la crescita ne risente completamente.
A questo aggiungerei che si è pensato di potersi posizionare in un’area della competitività che si potrebbe confrontare per esempio con i paesi emergenti, in qualche modo scavarsi una diversa area di competizione. Però questi Paesi sappiamo che sono cresciuti e soprattutto stanno evolvendo in una direzione che non è quella che sta continuando a perseguire l’Italia. Stanno investendo moltissimo in innovazione e ricerca, e si stanno posizionando via via sempre su industria a maggior valore aggiunto. Questo effetto di spiazzamento dei fattori di competitività è crescente quindi tutto questo avvitamento, con le prospettive che ne conseguono per quanto riguarda il lavoro, è molto più preoccupante e non può essere ascritto ai soli problemi dell’automazione.
Qui trovi il link al podcast della puntata del 30 Aprile di Memos.