La Legge 20 luglio 2000, n. 211, è chiara: “Istituzione del “Giorno della Memoria” in ricordo dello sterminio e delle persecuzioni del popolo ebraico e dei deportati militari e politici italiani nei campi nazisti“. Lungi dal voler attivare alcun tipo di inutile e pretestuosa polemica la domanda è: ma il 27 gennaio si parla della deportazione politica? No. Mai o quasi mai.
Ad esempio non si parla quasi mai dei grandi scioperi che in Italia furono messi in atto sia durante la dittatura fascista – che furono una delle concause determinanti che portarono alla destituzione di Mussolini il 25 luglio 1943 – sia sotto il giogo nazista. Quelli degli inizi di marzo del 1944, coinvolsero centinaia di fabbriche del nord e del centro Italia (da Firenze a Prato, da Pistoia, a Genova, da Savona all’Emilia Romagna, dal Piemonte a tutti i grandi stabilimenti milanesi e della Lombardia), con la partecipazione di decine e decine di migliaia di operai.
Un movimento di lotta di massa che aveva il suo cuore pulsante nella fabbrica. Furono i più grandi scioperi della Seconda Guerra Mondiale, di una tale portata che vennero magnificati persino nella prima pagina del N.Y Times e della Pravda a Mosca. Il prezzo pagato però fu devastante. La reazione del mostro nazista fu rabbiosa e, con la complicità delle milizie fasciste, di notte e con i modi più brutali, furono strappati alle proprie famiglie e deportati nei lager nazisti. Migliaia non fecero ritorno a casa, furono assassinati nei lager nazisti e lasciarono le proprie donne, da sole da un giorno all’altro, il duro compito di far fronte alle difficoltà della guerra, fatta da fame, freddo, malattie, bombardamenti, con i figli da accudire.
C’è una frase di una di quelle donne che mi ha colpito: “Con tutto il rispetto. Se si parla di deportazione si parla di Shoah; se si parla di Resistenza si parla dei partigiani. E i nostri uomini? Non contano niente perché politici?”. Che poi, come ricorda con una semplicità disarmante Peppino Valota, che ha ricostruito le storie di quegli operai di Sesto San Giovanni e dintorni, molti non erano nemmeno politici, facevano sciopero perché lo facevano tutti, nel senso che non ne potevano più dei soprusi del fascismo e del nazismo e perché era giusto fare così.
Tutta questa marea di storie e sofferenze il 27 gennaio, come per magia, sparisce, con episodi che rasentano, se non si trattasse di argomenti molto seri, la comicità. Sul giornale La Provincia del Pavese, l’ANED, l’associazione nazionale ex deportati che fin dall’immediato dopoguerra rappresenta gli internati politici diventa Associazione Nazionale Ebrei Deportati. Peccato che simili imprecisioni e omissioni si verifichino anche sulle testate, social e trasmissioni radiofoniche di portata nazionale.
Ci sono altri tre brevi esempi di varie di omissioni o mancati approfondimenti.
Si tende pericolosamente a spostare oltre ai confini nazionali (Auschwitz, Mauthausen, Dachau, i lager tedeschi, polacchi e austriaci), dimenticando la Risiera di San Sabba, Fossoli, Ferramenti di Tarsia, Bolzano, Gonars, etc); molto spesso ci si dimentica che Hitler altro non fece che cercare di portare a termine una ben più antica contesa, divisa in tre fasi: prima fase conversione (“Non avete il diritto di vivere con noi cristiani se non vi convertite”); seconda fase espulsione (“non avete il diritto di vivere con noi cristiani”), terza e ultima fase eliminazione (“Non avete diritto di vivere e basta!”).
Un ultimo esempio relativo a Anna Frank: quasi mai viene messo in rilievo che il responsabile di 110.000 deportazioni ebraiche in Olanda, e quindi della morte anche di Anna Frank, era Erich Rajakovic, uno dei principali collaboratori di Adolf Eichmann, che nel 1947 si va a rifugiare nella stessa città dove era nato nel 1905, Trieste. Gestisce una importante ditta di import/export, la Enneri & C, poi si trasferisce in Corso Concordia numero 8 a Milano, prima di darsela a gambe dopo il clamore internazionale destato dal processo contro Adolf Eichman. Nonostante i numerosi tentativi di Simon Wiesenthal alla fin fine la farà sostanzialmente franca. Storia emblematica anche questa che la dice lunga delle coperture (non ultima quella dei nostri governi e del Vaticano) di cui si sono potuti avvalere molti criminali nazisti.
Concludo con una accalorata esortazione rivolta soprattutto a coloro che questa tragica pagina di storia hanno fatto propria: incominciamo a chiamare il 27 gennaio come vuole la legge: Giorno della Memoria e non giornata della memoria. Le parole sono importanti. La parola giornata banalizza, ricorda scampagnata, castagnata, pizzata. Perché si sa come vanno queste cose. Si parte dal cambiamento casuale di un termine, da qualche così detto “errore” di poco conto, da qualche omissione, da qualche piccola necessaria falsità, che poi però diventa il supporto indispensabile per quello che è il grande calderone del negazionismo.
Testo di Renato Sarti, attore, drammaturgo, autore di Mai Morti, Nome di battaglia Lia, La nave fantasma, Io santo tu beato, Foibe, È vietato digiunare in spiaggia, Chicago Boys, animatore del Teatro della Cooperativa
Foto dalla pagina Facebook del Memoriale della Shoah Milano