
Giorgia Meloni ha detto ciò che pensa da sempre: “L’Europa di Ventotene non è la mia”. La sua ideologia, il suo nazionalismo, sono sempre stati antitetici rispetto al sogno federale di Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni.
Ma il fatto che l’abbia detto in questi giorni così cruciali per il destino dell’Europa ha un significato particolare; rivendicarlo con tanta veemenza è un passo importante di un’operazione politica e anche culturale, che la Presidente del Consiglio ha deciso di fare. Nei due giorni di dibattito in Parlamento Giorgia Meloni ha sostanzialmente detto che si schiera con Donald Trump, non con la Francia, la Germania e anche la Gran Bretagna, tre paesi alla ricerca di un’autonomia da Washington, considerata ormai una ex alleata.
Tra il rapporto privilegiato con la Casa Bianca e il tentativo di difendere l’unità di azione e di intenti dei paesi europei, Giorgia Meloni sceglie la prima opzione. Non lo fa tanto sul piano di riarmo di Ursula Von der Layen (c’è tutto il tempo per futuri distinguo); lo fa sulle garanzie di sicurezza per l’Ucraina e sui peacekeepers europei; lo fa sull’iniziativa con cui l’Europa ha risposto al voltafaccia americano e al pericolo russo.
Ora, dopo settimane di ambiguità e scontri, Giorgia Meloni e Matteo Salvini sono appaiati. Lei guarda a Trump, lui anche a Putin. Roma è adesso quasi in perfetta sintonia con le telefonate con cui i due decidono il destino dell’Ucraina e dell’Europa sopra la testa di milioni di persone. Se il Manifesto di Ventotene in Italia è il simbolo dell’unità europea, Giorgia Meloni attacca quel simbolo. Lo deride, citandone brani fuori dal contesto. Dà il via a una narrativa che vede nell’Europa unita, un’Europa sbagliata. I giornali della Destra l’hanno anticipata. Siamo solo all’inizio.