Medyka e Zosin sulla cartina sono due punti su una linea. Una linea che divide l’Ucraina dalla Polonia; l’inferno, dalla salvezza. Sono solo due punti su un confine, ma quando ci si mette piede in quei due punti, quando li si vede per davvero, ci si accorge che sono molto di più. Sono un viavai disperato di umanità, un passaggio forzato ma impellente, una speranza tanto agognata quanto sofferta.
In questi luoghi di confine, da quasi un mese, si muove il mondo. Si muove il mondo del volontariato, che da tutta Europa arriva portando ciò che può. Come Magdalena, polacca che studia in Austria, che durante una pausa dalle lezioni in università con 3 amici ha preso l’auto e ha guidato fino al confine per preparare tè caldo e panini ad uno dei tanti valichi di frontiera. O come Serghei, ucraino che vive da anni in Italia, che ha preso due mesi di aspettativa dal lavoro e ora, da settimane, è a Przemysl ad accogliere amici, familiari e conoscenti che dall’Ucraina arrivano in Polonia.
Altri arrivano da Parigi, da Berlino, da Helsinki, da Copenaghen, da Barcellona. Alcuni hanno solo una macchina, altri pulmini e furgoni. Sui cartelli che tengono in mano, o che hanno appeso all’ingresso dei centri, si legge: offro due posti in macchina per la Germania, oppure un passaggio per Lisbona, e una casa una volta arrivati.
Qualcun altro ha portato solo una chitarra, e all’ingresso del centro di accoglienza si mette a suonarla. Non è una festa, non ci si avvicina nemmeno lontanamente, ma questi posti – prima solo di passaggio – sono diventati adesso qualcosa di così abitato e così vivo che sono irriconoscibili.
Su questi confini, però, scorre anche un altro mondo. È quello di chi fugge, di chi la frontiera la abita per necessità, di chi per arrivare lì ha camminato per chilometri e chilometri, oppure ha preso un treno e ha attraversato tutta l’ucraina, con la paura di non farcela, e con il dolore per chi si è lasciato indietro. Sono bambini, infagottati nelle giacche pesanti, con il cappellino calato fino agli occhi. Stringono i peluche che si sono portati da casa. Si guardano intorno. Qualcuno è spaventato, qualcun altro confuso. Per i più piccoli, forse, può sembrare solo un lungo viaggio e quando sentono la chitarra dei volontari hanno ancora la forza di ballare. I più grandi, invece, sanno che quel viaggio sarà più lungo di quanto sperano. Nessuno piange, nessuno si dispera. Forse la stanchezza, forse il sollievo di avercela fatta, o forse il trauma, li rendono immobili. Vanno avanti, facendo tutti gli step necessari per registrarsi al centro di accoglienza senza lamentarsi, senza segni di cedimento. Gli anziani si appoggiano ai più giovani, e nei loro sguardi si legge la fatica.
Qualcuno ha grossi e pesanti borsoni, ma più spesso i bagagli sono snelli, contengono solo lo stretto indispensabile. Tanti hanno portato con loro anche il cane, o il gatto. Stanno in braccio, o nel trasportino. Anche loro sembrano capire il momento, non abbaiano né miagolano.
La paura, però, è lampante su ogni singolo volto che si incontra. Una di quelle paure che entra dagli occhi e lì si ferma. Così che chiunque incontri quegli sguardi riesce a vederla.
Quando queste persone, queste famiglie, attraversano il confine, si stringono tra di loro e non si separano un secondo. Si tengono le mani, si schiacciano uno accanto all’altro nei furgoni per non doversi allontanare e si guardano in silenzio. I sorrisi che scambiano con i volontari sono gentili, ma tesi, contengono un dolore che uno su un sorriso non si aspetta di vedere.
Questi due mondi, però, si intrecciano. Si avvicinano proprio in quei luoghi di frontiera che fino a poco fa erano sostanzialmente dei non luoghi.
E in questo modo, quei punti su una linea, diventano quello che dovrebbero sempre essere. Dei luoghi di incontro, di scambio. Dei luoghi che nella sofferenza e nella tragedia sanno accogliere. O che, forse, stanno imparando a farlo.