Quello di Marta Valdés non è certo tra i pochi nomi di personaggi della musica cubana che il grande pubblico conosce. Non c’è quindi da stupirsi che la notizia della morte della compositrice, chitarrista e cantante, il 3 ottobre scorso all’Avana, dove era nata nel 1934 e dove ha sempre vissuto, non abbia avuto una larga eco, e non solo in Italia. Stupisce, semmai, che non abbia trovato uno spazio significativo, se non andiamo errati, neppure su testate solitamente attente come Le Monde, The Guardian, The New York Times. Perché Marta Valdés è stata una figura tutt’altro che secondaria della musica e della cultura cubana dagli anni ‘50 al nuovo millennio.
Marta Valdés può essere considerata un’esponente della seconda generazione del “filin”, un genere che emerge a Cuba negli anni ‘40. Già il nome, per quanto cubanizzato nella grafia rispetto all’inglese “feeling”, suggerisce l’interesse di questa corrente per modelli americani di ambito jazz e blues e per interpreti sofisticati come il cantante e pianista Nat King Cole, a scapito invece dei modelli spagnoli e italiani. Attento anche a Chopin e Debussy, così come ai classici del son cubano, portato alla complessità armonica, all’eleganza e alla sensibilità melodiche, all’emozione dell’improvvisazione, alla libertà interpretativa del cantante, il “filin” si muove in una dimensione spesso introspettiva e di interesse per il quotidiano.
Attraverso la radio, Marta Valdés viene influenzata dai classici della canzone cubana, dalla trova e dal bolero, anche messicano. Nel ‘55, a vent’anni o poco più, comincia a comporre per semplice istinto, come scriveva nella nota con cui nel ‘95 accompagnava una raccolta di sue canzoni incise, qualcuna da lei e la maggior parte da grandi interpreti come Pablo Milanés ed Elena Burke. I suoi brani hanno subito successo, vengono lanciati da arrangiatori come Bebo Valdés e da cantanti di moda come Vicentico Valdés.
Poi, nel ‘59, Fidel entra all’Avana e negli anni ‘60 l’irrigidimento ideologico, che ha il sopravvento nella rivoluzione cubana e assunto dal Consejo Nacional de Cultura, prende di mira il “feelin”, sospetto già per quel nome di origine nordamericana. In quella nota scritta nel ‘95, Marta Valdés diceva, eufemisticamente: “Negli anni ‘60, proprio quando il mio pensiero musicale stava maturando, il destino mi fu avverso nel campo dell’incisione dei miei brani, così che non ebbi la possibilità di essere contemporanea alla mia generazione, ma lo fui di quelle successive”.
Come compositrice, Marta Valdés si rifugiò nella composizione di musiche per il teatro. Due grandi interpreti come Elena Burke e Miriam Ramos continuarono a proporre le sue canzoni davanti a piccole platee o in esibizioni in case private. Elena Burke, la più grande cantante cubana attiva nell’isola nella seconda metà del secolo, riuscì a imporre l’inserimento di 2-3 canzoni della Valdés nei suoi dischi. Con la seconda metà degli anni ‘70 l’atteggiamento dei responsabili culturali diventò meno rigido.
Nel decennio successivo cominciarono la riscoperta di Marta Valdés e gli omaggi. Nel 1980 Pablo Milanés incise per un proprio album diverse sue vecchie canzoni e un paio di inedite. Nel 1987 Elena Burke le dedicò un intero disco e numerosi sono stati via via anche i premi ufficiali cubani. Se un tempo quello che era etichettato come intimismo del “feeling” non era visto di buon occhio, in occasione del suo novantesimo compleanno, l’estate scorsa, il sito CubaDebate, su cui dal 2009 fino al 2013 Marta Valdés aveva tenuto la rubrica Palabras (il titolo della sua prima canzone), ha scritto che fin dall’inizio Marta Valdés ha primeggiato per la sua capacità di rapportarsi con i sentimenti più intimi della gente.