Marracash ha sempre saputo scrivere, e lo ha sempre fatto bene. Fin dai suoi esordi ha avuto nei testi, nella potenza evocativa e allo stesso tempo nitida delle immagini, probabilmente il suo maggiore punto di forza. Pochi come lui hanno saputo raccontare, o meglio, rappresentare la realtà dei margini urbani, della fame di rivalsa, delle periferie sociali negli ultimi anni. Il tutto senza mai perdere il focus su se stesso, celando sempre tra le liriche la sua personalità, il suo sguardo sulle cose, la sua posizione. Da qualche periodo però, sembra essere riuscito a portare attraverso il suo talento il tutto a un nuovo livello, un livello forse inedito per il rap alle nostre latitudini.
Già con il suo disco precedente, “Persona”, e il suo complesso concept ispirato all’omonimo lavoro di Ingmar Bergman, l’artista della Barona si era spinto oltre ogni cliché e recinto del rap italiano, sia da un punto di vista tecnico che contenutistico, stabilendo un paradigma a cui il resto della scena ha guardato negli ultimi due anni come a un piccolo capolavoro, a un punto di svolta. Eppure nel suo ultimo lavoro, “Noi, loro, gli altri “, c’è qualcosa di più.
Mettere in ordine i motivi che rendono questo disco importante non solo per la scena rap, ma proprio per la scena musicale autoriale italiana non è semplicissimo, perché i 43 minuti delle 14 tracce che lo compongono sono incredibilmente densi. Sicuramente una delle prime cose che si percepisce ascoltandolo è che l’artista misura se stesso sul suo essere adulto. Il che, oltre a essere quasi un inedito nel rap italiano, è tutt’altro che banale in una società che sembra voler creare eterni adolescenti, con lavori precari e malpagati, restii alle responsabilità a lungo termine e in fuga più o meno consapevole dai passaggi fondamentali della vita. Una fuga arricchita da mille distrazioni ludiche e consolatorie, che da un lato ti impediscono di emanciparti, dall’altro ti isolano, spezzettando la coscienza sociale in mille rivoli e la società in mille persone. In pratica, dei perfetti e compulsivi consumatori. Guardare in faccia questa realtà fa male, mette in una posizione scomoda. Ed è proprio quella in cui si mette Marracash, che se in “Cosplayer” denuncia con rabbia la frammentazione dell’identità collettiva e l’invisibile vergogna della povertà (mettendo anche il dito nella piaga delle possibili contraddizioni del politicamente corretto), in pezzi come “Dubbi” entra nel personale, rompendo quella corazza che protegge la parte più fragile di ognuno di noi, quella corazza che certa arte e soprattutto certa musica spesso si limita a lambire, fermandosi all’evocazione. Perché addentrarsi in certi meandri è rischioso, e offre poche sicurezze anche da un punto di vista commerciale. Ma qui è chiaro che chi scrive non lo sta facendo per accontentare ne accomodare nessuno. Lo fa, dichiaratamente, per esigenza. Sua (“Vedo rapper manichini senza niente da dire, a me queste rime non mi fanno dormire), e di chi ascolta (“Fai sognare gli italiani, io li vorrei svegliare”). Il tutto adagiato su produzioni che vanno da Ruggero Leoncavallo a Vasco fino a Guru Josh e la sua “Infnity”, che se in alcuni casi fanno da sfondo quasi neutro, in altri partecipano all’effetto emotivo di brani che sono poi i muri portanti di tutto il lavoro, e che arrivano dritti all’obiettivo (Si pensi a “Io”, la cui base campiona “Angeli” di Vasco Rossi).
Un disco in cui l’intensità di traccia in traccia non cala quasi mai, e tiene ancorati anche nei pezzi sulla carta più deboli o scontati. Soprattutto se si fa parte di quella generazione di giovani adulti che soffoca le domande esistenziali finché non si trasformano in ansie. E poi le violenze di stato, Giuliani, Cucchi e Aldrovandi, le pressioni sociali, quelle famigliari, le battaglie politiche fatte per convenienza, le comode prese di posizione senza impegno sui social, l’ipocrisia, le relazioni, gli affetti, le radici. E la sua capacità narrativa, innata, che riesce a portare chi ascolta anche all’interno del suo vissuto più intimo e sentirsene parte. E infine il coraggio. Quello di prendere delle posizioni, nette, scomode, chiare. Quello di mettersi in discussione e di non fingersi per forza felici, o sicuri di se. Quello, paradossale, di avere paura (“Perchè ci vuole coraggio per dire: Sono un codardo”).
Si scava dentro Marracash, e nel farlo scava in chi lo ascolta. Lo fa con un lavoro notevole, che lo pone definitivamente al livello dei nomi importanti della musica nel nostro paese, perfetto narratore di una generazione e mezza di italiani spesso incapace di narrarsi, se non dietro a qualche filtro che, se da un lato protegge, dall’altro mistifica, distorce. Qualcuno ha detto che dopo questo lavoro, tra qualche anno guarderemo a questo artista con la stesso sguardo con cui ora guardiamo a De Andrè. Forse però, rispetto all’inarrivabile Faber, in Marracash vi è una narrazione più legata al suo vissuto concreto, meno indiretta e suggestiva. Qualcosa di più simile a Vasco Rossi, per come lo ha vissuto la generazione da lui fotografata, quella di “Siamo Solo Noi”. O forse, tra qualche anno, quando guarderemo a questo artista, non vedremo che Marracash, con le sue caratteristiche, senza bisogno di stampelle o pietre di paragone.
“Noi, Loro, Gli Altri” ci accompagnerà fino a domenica 5 dicembre, quando gli dedicheremo uno speciale
a partire dalle 18:30.
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