Approfondimenti

Mappa per il Medioriente, dopo Daesh

Usiamo la ragione, trattiamo con il nemico, togliamo il cosiddetto stato islamico «dalle mani più estremiste e fanatiche» e permettiamo la nascita di uno stato sunnita nella regione. E’ la sintesi della “proposta per la Mesopotamia” che il fisico Carlo Rovelli ha presentato mercoledì scorso a Memos. «Quando la società intera si lascia andare alla paura o all’orrore – diceva Rovelli – allora si comporta in maniera irrazionale. Credo sia dovere di tutti gli intellettuali dire “fermi, usiamo la ragione!”.

Lorenzo Cremonesi, inviato speciale del Corriere della Sera e grande conoscitore del Medioriente, è d’accordo con Rovelli e lo spiega a Memos partendo da una precisa descrizione di cosa sia il cosiddetto stato islamico (Is o Isis o Daesh). «Isis è un mostro a due teste – sostiene Cremonesi -. La prima ha una componente estremista, sunnita, mediorientale che nasce dal malcontento politico dei sunniti in due momenti: prima in Iraq, dopo la guerra del 2003, quando nel paese prevale l’elemento sciita e dell’Iran; e poi in Siria, a causa della terrificante repressione della maggioranza sunnita da parte del governo di Assad (il leader della minoranza alawita, una setta degli sciiti sostenuta dall’Iran). Si tratta quindi di una componente estremamente politica – dice Cremonesi -. A questa prima testa dell’Isis se ne aggiunge un’altra: si tratta di una testa profondamente occidentale, europea, legata ai nostri problemi (basta vedere cosa sta succedendo a Parigi con le banlieus) e che vede innestarsi su di essa un elemento jihadista.

Mi riferisco a questa “internazionale del terrore” che abbiamo visto sintetizzata in diversi modi, da Al-Qaeda alle brigate straniere nelle zone liberate in Siria. Sono d’accordo con Rovelli: bisogna dividere queste due teste, parlare politicamente alla testa mediorientale che ha un elemento di grande forza, principalmente nell’Iraq ex baathista (il Baath era il partito di Saddam Hussein, ndr). Dobbiamo capire che nell’Isis c’è un elemento baathista che, obtorto collo, è d’accordo a cooperare con gli estremisti islamisti, ritenuti uno strumento utile per contrastare gli sciiti e l’Iran. Quindi credo che ci siano delle ragioni valide nel dar loro un riconoscimento politico, nel riconoscere la loro ragion d’essere e addirittura nel pensare a uno smantellamento dell’Iraq e ad una ricostruzione del Medioriente post Sikes-Picot (ndr: dal nome dei due negoziatori dei governi britannico e francese, Mark Sikes e Francois Georges-Picot, che nel 1916 raggiunsero un accordo per la spartizione del Medioriente dopo la caduta dell’impero ottomano)».

Perché nessuno dei soggetti coinvolti, dalle potenze internazionali a quelle regionali, sembra in grado di far proprie queste “ragioni valide”? «Per far questo – risponde Cremonesi – occorre un progetto politico, una lucida analisi che non vedo in particolare nei nostri governi. Manca un attore super partes che sia in grado di imporlo. Le Nazioni Unite fanno ridere, l’Europa è divisa, gli Stati Uniti stanno ritirandosi e appaiono ai sunniti come responsabili diretti della loro catastrofe. Non a caso i sunniti accusano gli Stati Uniti di essere alleati degli sciiti, vedi ad esempio il processo di distensione con l’Iran. C’è dunque bisogno di un attore politico internazionale che freddamente, a tavolino, decida di dare una prospettiva politica ai sunniti. In questo momento tale prospettiva non c’è. Abbiamo invece due politiche diverse: gli Stati Uniti continuano a dire che Assad è un criminale, che non può essere parte della soluzione, mentre la Russia invece appare, sottolineo appare, come il grande paladino di Assad. Sul terreno sta avvenendo ciò che non ha un riconoscimento politico internazionale: e cioè la nascita di un nuovo stato sunnita, a cavallo tra l’Iraq e la Siria, che mette in dubbio così tanti equilibri e confini da richiedere che la comunità internazionale si sieda ad un tavolo e avanzi un ridisegno del Medioriente».

Ospite a Memos anche Leonardo Becchetti, economista all’università di Roma Tor Vergata, autore del “Manifesto per un’economia civile”, editorialista dell’Avvenire. «Le spirali di violenza non fanno che produrre altra violenza. Da questo punto di vista – dice Becchetti – sono simpatetico nei confronti dell’ipotesi di Rovelli. Se vediamo la storia del Medioriente ci accorgiamo che è stata una storia di errori, di interventi sbagliati delle potenze esterne all’area: dall’Unione Sovietica dell’invasione afghana negli anni ’80, agli Stati Uniti dell’Iraq nel decennio scorso». Si deve trattare? «Penso – sostiene Becchetti – che occorra trattare diplomaticamente con tutte quelle potenze che ci appaiono recuperabili e affidabili. Credo che quanto ha fatto Obama con l’Iran sia un capolavoro, e cioè affrancare Teheran dall’idea di stato terrorista. Che questo metodo possa essere applicato all’Is appare difficile, perché riteniamo l’Is l’incarnazione più virulenta, meno addomesticabile, di questo terrorismo che si fa stato. Penso comunque che la provocazione di Rovelli sia molto utile. Ritengo che in fondo questa sia l’unica strada possibile. Ciò non vuol dire non massimizzare tutte le nostre iniziative di sicurezza e non combattere il terrorismo».

Cremonesi parla di un Isis con una testa “occidentale, europea”, riferendosi ai terroristi di Parigi che sono cittadini europei. Lei, professor Becchetti, parla di fascino che il fondamentalismo eserciterebbe sui giovani in Europa. Perchè? «Noi produciamo tantissima “povertà di senso”, povertà non solo economica, ma anche di benessere, di qualità delle relazioni. Leggevo proprio oggi che la zona di Molenbeek in Belgio ha una comunità islamica con il 50% di disoccupazione e con una densità abitativa impressionante: 16 mila persone per chilometro quadrato. Ora, è evidente che se noi costruiamo trappole per topi, luoghi dove non ci sono opportunità, dove non si offre una ricchezza di senso alternativa, tutto ciò diventa il terreno più fertile per l’offerta terroristica. In queste condizioni – conclude Becchetti – per quei giovani, per quegli adolescenti, l’assurdo di un’offerta dell’integralismo islamico può diventare paradossalmente attraente, perché viene a rispondere a quella domanda di senso che è totalmente inevasa dalle trappole di povertà di senso che noi creiamo».

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    Raffaele Liguori
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    E’ stata una giornata di scambi di dichiarazioni all’insegna dell’apertura e della cordialità tra Trump e Putin, sull’Ucraina. Ha iniziato il presidente Usa: “abbiamo avuto delle discussioni molto buone e produttive ieri con Vladimir Putin e ci sono ottime possibilità che questa orribile e sanguinosa guerra possa finalmente giungere alla fine". Gli ha risposto Putin: “Trump sta facendo di tutto per ripristinare i rapporti con noi anche se è un processo non facile per non dire complicato”. Trump poi ha chiesto a Putin di non massacrare i soldati ucraini nel Kursk e Putin ha risposto che gli ucraini nel Kursk devono deporre le armi. Kiev si è fatta sentire affermando che le sue truppe nel Kursk non sono accerchiate. E Zelensky ha accusato Putin di voler boicottare la tregua. Una giornata di parole insomma, in attesa degli sviluppi reali. Gianluca Pastori, professore di relazioni internazionali alla Cattolica di Milano.

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