È solo con gli anni ottanta che la musica africana moderna, con un’onda che è un fenomeno specifico di quello più generale della world music, comincia ad arrivare alla ribalta mondiale con un’ampia dimensione collettiva. Prima, fino a tutti gli anni settanta, per il grosso pubblico internazionale la musica africana si riassume in pochi, singoli personaggi: i sudafricani Miriam Makeba e Hugh Masekela, arrivati al successo in esilio, negli Stati Uniti, negli anni sessanta; il nigeriano Fela Kuti; e Manu Dibango, in particolare dopo il clamoroso exploit di Soul Makossa, il brano del ’72 che ha conquistato l’America e poi il mondo.
Il paradosso di una figura come Manu Dibango è che il musicista camerunese diventa un emblema della musica africana non partendo dalla musica del suo continente, ma arrivandoci: una delle pagine più commoventi di Tre chili di caffè, uno dei due libri autobiografici di Dibango, è quello in cui racconta di aver sentito, una volta arrivato da ragazzo in Francia, una Cantata di Bach, e di avere pensato che fosse una melodia di casa sua, del Camerun: perché Dibango da bambino aveva familiarizzato con musiche europee cantando alla chiesa protestante.
L’importanza di Dibango è quindi anche quella di essere stato l’artefice di una musica africana distante dal cliché di una musica etnica: quella di Dibango sarà una poetica cosmopolita e metropolitana, quella di un’Africa che uscendo dal colonialismo deve reinventarsi una identità, e non rimanere prigioniera della tradizione.
È proprio una musica con un grande debito con l’Africa, ma nuova, inedita, originale, il jazz, ad affascinare il giovane Dibango in Europa: Dibango sbarca a Marsiglia nel ’49, sedicenne, mandato dai genitori a studiare in Francia. Negli anni cinquanta, quando il jazz neroamericano spopola oltralpe, Dibango è attratto da Louis Armstrong, Sidney Bechet, Duke Ellington: per lui, oltre che dei modelli musicali, sono degli eroi in cui identificarsi, dei neri come lui, in un momento in cui l’Africa ancora sotto il dominio coloniale non ha ancora delle icone da proporre.
La sua scoperta della musica africana avviene proprio nell’era delle indipendenze del continente nero: a Bruxelles conosce il grande Joseph Kabasele, figura fondamentale nello sviluppo della musica congolese moderna, che è nella capitale belga per sostenere con la sua musica la delegazione che nel ’60 sta trattando l’indipendenza del suo paese. A Kabasele piace come Dibango suona il sax, e lo porta con sé in quell’Africa che Dibango quasi non conosce: nella prima metà degli anni sessanta Dibango sarà in Congo, in Camerun, in Costa d’Avorio, in un incontro con il continente nero non sempre facile e non privo di delusioni, ma decisivo dal punto di vista musicale e umano.
Poi in Francia il lavoro con il popolarissimo Nino Ferrer, poi Soul Makossa, e tanto altro nei decenni seguenti, in una carriera lunghissima: l’ultima volta che abbiamo avuto occasione di vederlo dal vivo, in formissima con i suoi 85 anni, è stato un anno fa, in concerto a Bergamo Jazz.
Dibango è stato un grande musicista e un vero uomo di spettacolo, capace di rinnovarsi – pensiamo alla fase reggae o negli anni ottanta al suo rapporto con le nuove tendenze funk ed elettroniche – ma rimanendo invariabilmente sé stesso, con una musica sempre elegante, di grande gusto melodico, inconfondibilmente affabile, bonaria, e spesso di toccante poesia.
Dopo una vita vissuta pienamente, con lui se ne va un grande anticipatore: un battistrada della musica africana moderna, un antesignano della world music, e, con la sua identità a cavallo fra Africa nera ed Europa – con tanto amore per le sue origini quanto per la Francia – una delle figure che sul piano simbolico nei decenni scorsi meglio hanno indicato il mondo multiculturale che stava emergendo.
Foto dalla pagina Facebook di Manu Dibango