
È un pomeriggio caldo a Como, il cielo è grigio, scende anche qualche goccia di pioggia, ma dura poco. Ai tavolini all’aperto di bar e ristoranti non se ne accorge nessuno. Sul lungolago si passeggia verso la funicolare per Brunate, in piazza Volta le ruote dei trolley corrono sul pavimento mentre gli sguardi restano piantati sulle mappe della città. Il turismo sembra aver ripreso il suo giro, dopo due anni molto complicati. Guardando all’estate, chi ha un locale, un ristorante o un albergo si aspetta una stagione positiva: “Una ripresa veramente sprint, c’è un bel po’ di gente. Il motivo per cui non siamo contenti è che manca il personale nella ristorazione. Il problema sono questi benedetti sussidi che sta dando lo Stato per chi non lavora. Anziché incentivare il lavoro mi sembra che lo stanno disincentivando”. Come sottolineano queste parole del titolare di un ristorante in riva al lago, nonostante il lavoro non manchi si fa fatica a trovare lavoratori per affrontare questa ripresa. Lui indica una causa precisa all’origine di questa difficoltà: l’introduzione del reddito di cittadinanza. Tra i suoi colleghi c’è chi la pensa allo stesso modo.
Senza soffermarsi troppo a indagare la differenza tra la realtà e la sua percezione, il problema della carenza di personale è confermato anche dagli albergatori. Lo spettro delle possibili cause si amplia alla mobilità ridotta di lavoratori dall’estero, anche agli stipendi bassi si riconosce, colpa di una tassazione troppo pesante – si aggiunge – Così è impossibile reggere il confronto con gli stipendi della vicina Svizzera. Il signor Giuliano ricerca e forma lavoratori per un albergo di Como. Per lui i periodi più duri della pandemia hanno avuto un ruolo decisivo nel cambiare la situazione: “Prima avevo l’imbarazzo della scelta, ora mi viene difficile trovare qualcuno. La pandemia non dava più certezza di posto di lavoro al personale che già operava in questo settore. Chi ha potuto trovare un’opportunità diversa, l’ha accettata”.
Eppure un lavoro come quello stagionale nella ristorazione o nell’ospitalità ha sempre avuto incertezza e difficoltà tra le sue caratteristiche. Impiego quando va bene per sei mesi l’anno, copertura della disoccupazione di due mesi e mezzo, poi per il resto ci si deve inventare. È un lavoro stimolante, ma anche esigente: giornate lunghe, talvolta infinite, non sempre pagate il giusto. Il fine settimana libero poi è una rarità, mentre per gli altri è scontato passarlo a rilassarsi e divertirsi. Se tutto questo è riconosciuto, quasi sempre accettato anche quando le regole e i contratti non sono rispettati o sono addirittura ignorati, ad ascoltare le esperienze di chi, dopo anni, ha deciso di non lavorare più in questo settore, la pandemia sembra aver contribuito a far riconsiderare che cosa si è disposti a fare per lavoro e che cosa no.
Patrick è arrivato in Italia dall’Africa occidentale. Non è il suo vero nome, ma le storie di sfruttamento e razzismo che porta con sé sono reali. Da poco, ha deciso di non lavorare più nel ristorante dov’è stato per 5 anni come lavapiatti, aiuto cuoco e cameriere.
Ora, Patrick ha un contratto a tempo pieno e a tempo indeterminato. Capita anche che chi lascia un impiego da cameriere o da commesso continui a doversi destreggiare tra mille difficoltà e tra più lavori. Alla base della scelta di cambiare c’è però la ricerca di un migliore equilibrio tra tempi di vita e tempi di lavoro e anche, forse soprattutto, di soddisfazione e benessere personale. Ludovica e Roberta (non è il suo vero nome) hanno scelto e avuto la possibilità di mettere a frutto il loro percorso di studi o le loro passioni, dopo esperienze che le hanno messe duramente alla prova. Lo stipendio magari non è aumentato, non hanno maggiori certezze materiali, ma sanno con certezza che cosa hanno passato.
Un percorso in apparenza inverso è quello che ha fatto Chiara, 22 anni. Il lavoro che ha fatto per sei mesi in un’azienda sanitaria, nel personale amministrativo per le vaccinazioni contro il Covid, le ha dato uno stipendio in un periodo difficile finché non ha sentito che le stava togliendo tutto il resto. Per ricominciare ha così deciso di accettare due lavori da addetta alla reception e da cameriera in due locali di Como, uno con un contratto stagionale part-time e uno non dichiarato, a chiamata, per 6 euro all’ora.
I discorsi che si sentono spesso sui giovani non più disposti a sacrificare il sabato o la domenica, sui lavoratori o sulle lavoratrici stagionali che rifiutano l’impegno di un’occupazione faticosa dopo la pandemia o dopo l’introduzione del reddito di cittadinanza non possono ignorare un dato che sembra acquisito: il sistema che fino a poco tempo fa manteneva un sostanziale equilibrio tra domanda e offerta di lavoro, nel settore della ristorazione e dell’ospitalità ma non solo, non sta più funzionando come prima. Alcuni gestori sono dovuti correre ai ripari: chiusure anticipate alla sera, saracinesca abbassata prima per non fare orari proibitivi e non spremere troppo i lavoratori in organico. “Non riusciamo più a coprire l’apertura tutti i giorni e ad avere i riposi settimanali – ha detto un titolare – teniamo chiuso un giorno. Non era più di moda chiudere un locale con il giorno di riposo”. Ora si è tornati a farlo