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L’ultimo discorso di Joe Biden da presidente all’Onu, davanti a un mondo in fiamme

Joe Biden - ultimo discorso all'onu

Nel suo quarto e ultimo discorso all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, Joe Biden spiega che la sua visione dell’America nel mondo ha prodotto risultati. America is back, aveva più volte detto Biden, ai tempi della sua elezione, quasi quattro anni fa. L’America, secondo il presidente, è effettivamente tornata e avrebbe favorito un sistema mondo in cui le parti in contrasto si ritrovano, discutono e trovano un accordo. A guardarsi attorno, non sembra esattamente così. Biden, ovviamente, non lo può dire, perché vorrebbe dire ammettere di aver fallito e soprattutto lasciare l’eredità di questo fallimento alla candidata democratica, Kamala Harris. Ma il mondo che il presidente si lascia dietro, dalla guerra in Ucraina allo scontro aspro con la Cina al Medio Oriente in fiamme non è certo un esempio di pacifica coesistenza. La cosa, ovviamente, non dipende solo da Joe Biden. Ci sono le ambizioni degli altri Paesi e la volontà espansionistica di regimi autoritari e dinamiche storiche che erano in atto ben prima che Biden arrivasse alla Casa Bianca. Detto questo, Biden arriva a fine mandato con un bilancio che, sulle questioni internazionali, può essere definito molto deludente, se non fallimentare. La cosa è particolarmente evidente in tema medio oriente. La guerra a Gaza infuria. Il conflitto sembra ormai allargarsi al Libano. Gli Stati Uniti lavorano a un piano per “condurre le parti a un accordo durevole”, ha detto Jake Sullivan, segretario alla sicurezza nazionale. Il linguaggio della diplomazia riesce però difficilmente a nascondere l’impotenza dell’amministrazione Biden. Da un lato, l’amministrazione ha appoggiato l’eliminazione di Ibrahim Aqil, su cui pendeva una taglia di sette milioni di dollari per il suo ruolo in due attentati a Beirut nel 1983. Dall’altro lato, Biden in questi mesi ha ripetuto soprattutto una cosa. E cioè, l’assoluta necessità di evitare un allargamento del conflitto. Cosa che invece ora, puntualmente, avviene. Uno dei problemi è l’ormai quasi totale assenza di comunicazione tra Biden e Benjamin Netanyahu. I due, ai ferri corti da tempo, non si parlano più. Non c’è stata nemmeno una telefonata tra Casa Bianca e ufficio del primo ministro israeliano dopo l’esplosione di cercapersona e wakie talkie. L’amministrazione quindi appare debole, spesso in ritardo, sorpresa dalle azioni israeliane, che ormai si svolgono in modo sempre più autonomo e slegato da ogni coordinamento con l’antico alleato. La stessa impotenza gli Stati Uniti la stanno dimostrando anche su Gaza. Nessuno parla più del piano di pace americano. Ma Washington non ha per il momento nemmeno presentato un piano più limitato, sei settimane di cessate il fuoco, come se sapesse che le parti, Hamas e Israele, non lo accetteranno. Del resto, le parti aspettano ormai di conoscere chi entrerà alla Casa Bianca, il prossimo 5 novembre, e il sogno di Biden per il Medio Oriente – con la fine delle ostilità a Gaza, riconoscimento reciproco tra Israele e Arabia Saudita, nascita di uno Stato palestinese – è destinato appunto a restare il sogno. Lui, Biden, è ormai già il passato, e se la sua America è davvero tornata, in pochi se ne sono accorti.

  • Autore articolo
    Giacomo Casartelli
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    La tregua a Gaza è sempre più in bilico

    È sempre più in bilico la tregua a Gaza. Il premier israeliano Netanyahu ha detto che la decisione presa all'unanimità dal governo è che "se Hamas non restituisce gli ostaggi entro sabato a mezzogiorno", senza specificare il numero, "il cessate il fuoco verrà interrotto e l’esercito tornerà a combattere. Netanyahu ha anche detto che "alla luce dell'annuncio di Hamas della sua decisione di sospendere il rilascio degli ostaggi, ha ordinato alle Idf di radunare le forze dentro e intorno alla Striscia di Gaza". Le dichiarazioni di Netanyahu seguono quelle di Trump, che ha minacciato “l’inferno” se Hamas non libererà TUTTI gli ostaggi sabato, anche se secondo gli accordi era previsto il rilascio solo di 3 ostaggi. Il rischio della ripresa della guerra si unisce anche al piano di Donald Trump di svuotare la striscia di Gaza. Oggi ha ricevuto a Washington il Re di Giordania, che – insieme all’Egitto – è uno dei paesi individuati da Trump per accogliere i palestinesi espulsi da Gaza. Sia Amman che Il Cairo hanno rigettato la proposta, e Trump ha minacciato di tagliare i fondi a questi due paesi, in violazione anche degli accordi di Camp David del 1979. Sentiamo Eric Salerno, giornalista e scrittore esperto di Medio Oriente:

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