Il vento di Roma, che oggi soffiava forte, ha fatto garrire le bandiere della pace. Tante, tantissime, hanno puntellato ogni metro della manifestazione, mischiate a quelle delle molte realtà che hanno aderito. Il movimento pacifista, per usare una metafora che più ossimorica non si può, ha messo in campo l’artiglieria pesante. Fatta di uomini, donne, ragazzi e ragazze, pure bambini e bambine, che hanno invaso, anche questa metafora/ossimoro, Roma.
Un corteo colorato e festoso, si dice in questi casi. E stavolta è vero. Anche eterogeneo, forse come difficilmente era pensabile. Perché è stata una manifestazione che ha unito, e non era semplice, tante anime diverse, ma che in comune avevano un unico pensiero: quello di fare qualcosa di concreto per mettere a tacere le bombe e riaprire i canali della diplomazia, per dire stop alla guerra.
Le polemiche dei giorni scorsi, sulle parole chiave da usare nella manifestazione, si sono sciolte in un clima e uno spirito unitario, riapparendo solo nei vari spezzoni del corteo, ma non per dividere, ma per rimarcare che questo movimento, germe di qualcosa di più grande e duraturo è presto per dirlo, non è granitico e tetragono, ma fluido e inclusivo.
Oggi hanno sfilato insieme, gomito a gomito, vecchi comunisti anti-Nato e altrettanto vecchi hippies peace and love, ma c’erano anche i collettivi degli studenti e i giovani di Fridays for Future, che mettono insieme pacifismo e ambientalismo, perché alla fine, volenti o dolenti, il mondo futuro sarà loro.
L’eterogeneità della piazza si è rispecchiata negli interventi dal palco, diversi e diversificati. Ma è andata bene così. Perché di là, dall’altra parte, c’è chi fa la guerra. Di qui, oggi, c’era chi la guerra la vuole fermare, e al più presto.