Molti analisti avevano decretato che il G20 del 2021 sarebbe entrato nella storia. In quell’occasione, per la prima volta, i governanti dei paesi che producono l’85% del PIL globale decisero di stabilire un parametro fiscale internazionale da applicare all’industria digitale e a tutte quelle imprese che vendono servizi in un paese ma pagano altrove le tasse sul profitto. Nasceva la Global Minimum Tax, con un’imposizione pari al 15%, messa a punto dall’OCSE e adottata nel 2022 anche dall’Unione Europea, perché considerata giusta: un primo, piccolo passo per raggiungere l’equità fiscale.
La riforma, nella sua veste definitiva, prevedeva in realtà due pilastri. Il primo era stato pensato per i giganti del web che, se hanno ricavi annui superiori a 20 miliardi di euro, devono pagare le tasse nella giurisdizione in cui effettuano le vendite, per una quota equivalente al 25% dei profitti sopra il margine del 10%. Il secondo pilastro, più noto, stabiliva che le multinazionali con un fatturato annuo globale di oltre 750 milioni di euro fossero soggette a un’aliquota minima globale effettiva del 15%, a prescindere dalla giurisdizione fiscale di appartenenza.
A distanza di tre anni, la situazione non appare più così rosea. I paesi che hanno ratificato l’accordo e che applicano la Minimum Tax sono quelli dell’Unione Europea, più Regno Unito, Svizzera, Norvegia, Canada, otto stati asiatici, tra cui Giappone e Corea del Sud, tre latino-americani e altrettanti paesi africani. Non l’hanno implementata, e nemmeno pensano di farlo, Cina e Stati Uniti: le due potenze globali che generano oltre il 25% degli scambi commerciali mondiali.
Le difficoltà emerse nell’applicazione concreta di quanto deciso in sede multilaterale sulla tassazione globale ci riportano drammaticamente al tema chiave che sempre si evita di commentare: gli stati adottano due politiche diverse quando si tratta di negoziare e sottoscrivere accordi internazionali. La prima, di natura strategica e mediatica, al momento della firma di intese o trattati, mira a lasciare intendere che un problema, più o meno sentito dall’opinione pubblica, sia stato risolto alla luce di un consenso internazionale, come nel caso della Global Minimum Tax. La seconda, di natura pragmatica e amministrativa, si traduce nel ritardare il più possibile la ratifica e l’entrata in vigore degli impegni sottoscritti, allo scopo di tutelare interessi nazionali o di settori specifici.
Principali responsabili di questa situazione sono sempre due potenze che oggi hanno l’onere e l’onore di indirizzare la comunità internazionale anche con il loro esempio. Stati Uniti e Cina perseguono la stessa priorità economica e geopolitica: prevalere sulla potenza rivale in una competizione senza esclusione di colpi, che si tratti di sanzioni, dazi o minacce militari. Siamo di fronte a una strana coppia di contendenti, dotati di sistemi produttivi, finanziari e commerciali ormai reciprocamente integrati. Per questo, una doppia politica fa comodo a tutti.
L’ipocrisia continuerà a regnare a lungo sul piano multilaterale, tra sorrisi e foto di rito scattate quando si annunciano nuovi traguardi collettivi, e la fredda realtà dei fatti che emerge quando si va a verificare se quelle promesse siano state effettivamente mantenute.