Uno tsunami, o un incendio. Il campo semantico di riferimento quando si parla della seconda ondata di COVID-19 che sta scuotendo l’India è quella della catastrofe naturale. I casi giornalieri crescono ogni giorno esponenzialmente, gli ospedali sono al collasso, i pazienti non riescono a trovare un letto e quando lo trovano, manca l’ossigeno.
I roghi funebri lungo le rive del Gange sono ormai un cupo simbolo nel resto del mondo della ferocia con cui il virus sta colpendo la penisola indiana, lasciandola a fare i conti con una crisi sanitaria e umanitaria che non ha niente a che vedere con la prima ondata.
Le file di pazienti fuori dagli ospedali in attesa di un posto non accennano a diminuire, e in tanti muoiono mentre aspettano. Ogni giorno, il governo segnala più di 300mila positivi e quasi 3mila morti. Numeri che, sebbene siano già così impressionanti, secondo gli esperti rappresentano solo una frazione di quello che realmente è l’impatto del COVID-19 in India in questo momento.
Secondo gli epidemiologi che stanno monitorando i numeri nel paese, il dato reale potrebbe essere da 2 a 5 volte maggiore. I numeri sono nascosti dietro una politica e un sistema ospedaliero in preda al panico, e – secondo gli osservatori – anche dalle famiglie che omettono collegamenti con il COVID per vergogna. I lavoratori delle aree adibite alle cremazioni hanno spiegato al New York Times di non aver mai visto una tale quantità di morti ogni giorno e, nonostante ciò, di aver avuto indicazioni dai loro datori di lavoro di non indicare “COVID-19” come causa della morte, ma “malattia”.
Dietro a questi numeri si possono individuare diverse cause. Innanzitutto la rapida diffusione della malattia sembra essere riconducibile ad una nuova variante, chiamata – appunto – indiana, che sarebbe caratterizzata da una doppia mutazione, caratteristica che la rende “osservata speciale” dai virologi di tutto il mondo. Una grande fetta di responsabilità è da imputare anche alla politica. Il premier Narendra Modi è stato accusato di aver dato priorità alla politica invece che alla salute dei suoi cittadini.
Modi, infatti, ha permesso che le campagne elettorali nei vari stati venissero tenute nelle città e seguite da migliaia di persone oltre ad aver dato il via libera ad uno dei festival religiosi hindu più partecipato del paese: nonostante gli esperti avessero chiarito che festeggiare il Kumbh Mela come se niente fosse sarebbe stato altamente rischioso, a inizio mese milioni di pellegrini hanno raggiunto le rive del Gange per il bagno sacro. Il sistema sanitario, poi, rilevatosi inadatto già durante la prima ondata, non è stato potenziato durante il periodo in cui il virus ha lasciato che l’India respirasse ed è stato colto completamente impreparato.
La tragedia indiana, però, rischia di scaturire presto in un’emergenza mondiale, perché il governo potrebbe bloccare l’esportazione di vaccini per tenerli per far fronte alla propria necessità interna. Il Paese, infatti, è considerato “la farmacia del mondo”, è tra i più grandi produttori di vaccini al mondo e rifornisce le campagne vaccinali di tutto il globo. Ecco, forse, perché paesi come il Regno Unito, la Francia o gli Stati Uniti ora si stanno attivando per fornire al paese gli aiuti necessari: dall’ossigeno, ai medicinali fino ai respiratori. Gli Stati Uniti, dopo aver negato all’India alcuni composti chimici fondamentali per la produzione dei vaccini, hanno annunciato che avrebbero parzialmente rimosso lo stop alle esportazioni per poter aiutare la produzione indiana.
Il caso dell’India rende ancora più chiaro come nessuno è salvo finché tutti non sono salvi. E in questo senso è fondamentale che le grandi potenze del mondo occidentale smettano di concentrarsi solo sui proprio bisogni, e aiutino il programma Covax – ora fortemente rallentato – a proseguire come programmato. E questo non può avvenire finché l’India – principale fornitrice di vaccini al programma – non avrà accesso a tutte le armi necessarie a combattere la lotta contro il COVID.